"Non raccontarmi il cielo", i versi intrepidi di Palazzo

"Non raccontarmi il cielo", i versi intrepidi di Palazzo
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Martedì 7 Gennaio 2020, 11:12
Claudia PRESICCE
La poesia è una sorta di lettura di immagini rimbalzanti che tormentano la mente di chi produce versi. Non lo lasciano respirare senza sentire il profumo della vita o quello di un atteggiamento maleodorante, senza toccare con i piedi l'aria tagliata dai passi o senza avvertire il rumore del sangue di chi cova odio. Ecco, senza pelle il poeta si muove nel suo mondo e descrive ogni luce, calda o fredda, che rimbalza sulla sua pelle.
Non raccontarmi il cielo (Manni; 12 euro) di Luigi Palazzo è la prima raccolta di versi di questo autore salentino. La freschezza dell'opera prima se da un lato lascia spazio a qualche sperimentazione, anche dura e difficile rispetto al poetare contemporaneo, dall'altro è poggiata su un pensiero lungo. Non sono questi versi buttati lì, sterili frasi che troppi allievi di corsi di scrittura creativa ormai definiscono poesia. Qui c'è una storia, un racconto e anche, va detto subito, un dolore. Sono versi infatti che in modi diversi contattano spesso i mali di questo mondo, sono ripiegati sulla malinconia (anche di fronte alla bellezza) oppure sullo scetticismo che nutre una certa angoscia esistenziale. Sono a tratti cinici e asciutti, come consapevoli di un universo senza sogno. Sono in sostanza versi sulla contemporaneità, ma non sono esili, né veloci o artificiosi e sintetici. Affondano nella ricerca di una narrazione possibile di ciò che è e di ciò che potrebbe essere. Una ruga di dolore / che sorride / al posto suo, / di diciott'anni / piena, / di trenta secoli / colma. / Fottuta voglia / di ridere / di gusto, / voglia / viziata / di piangere / per noia. Sono i primi versi della poesia Elisa in cui c'è tutta la contraddizione di un mondo in cui la giovane sensibilità diventa viatico per meglio comprendere storture e tristezze. È un mondo in cui speranza è il nome dell'imbroglio, ma è lo stesso mondo in cui si canta d'amore per altri cent'anni, / tenendoti per mano (sono questi versi tratti da liriche diverse, delle tre sezioni in cui è composto il libro). Di questa raccolta scrive nel risvolto di copertina Salvatore Cosentino, il fiore della poesia di Luigi Palazzo sboccia sul terreno intellettuale e morale. È espressione vivente di umanità. La sua filosofia, mai disgiunta da un'anima pulsante, è metodo di umanizzazione. La sua rima è linfa per il pensiero.
Nove quartine di endecasillabi a rima baciata (tranne l'ultima strofa) sono la trama metrica sulla quale l'autore di questa silloge costruisce la prima poesia che apre il libro. Non si pensi però ad alcuna classicità (peraltro il primo verso come il cazzaro polverizza in un attimo questa idea), perché lo sforzo stilistico, apertamente stridente con il contenuto, riprende la stessa contraddittorietà presente nei versi, in cui prima si evoca la sensazione di qualcosa e poi il suo contrario, il suo degrado. Una sorta di gioco ossimorico, non esente da scherzi sinestetici, è infatti in ogni riga: come la pelle che brilla di tigna / gioia posticcia di madre matrigna, / livido mirto bruciato dall'ombra / battito morto di macchina sgombra. Non è la sola tra queste poesie a risentire di uno sforzo metrico inatteso. Nella prefazione, Antonio Scandone, parla di coraggio e di orgoglio di questa poesia, e dell'autore come di una promessa. Classe '86, Palazzo è un avvocato di Salice Salentino, già autore di scritture nell'ambito giuridico, attivo nella produzione culturale anche come autore di testi e regie teatrali.
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