Il Pentamerone a tavola tra fiabe, cibo e racconti

Il Pentamerone a tavola tra fiabe, cibo e racconti
di Giuseppe ARGO
6 Minuti di Lettura
Martedì 6 Luglio 2021, 05:00

Tutti conoscono le fiabe di Cenerentola, del Gatto con gli stivali e di Hansel e Gretel. Ma pochi sanno che fu uno scrittore napoletano vissuto tra ‘500 e ‘600, Giambattista Basile, a inventare questi personaggi. Nel suo “Lo Cunto de li cunti”, si chiamavano Gatta Cenerentola, Cagliuso, Ninnillo e Nennella. Basile, con le sue quarantanove fiabe scritte in dialetto napoletano, fu l’autore, secondo Benedetto Croce, del più bel libro dell’epoca barocca.
Su Basile e sulla sua capacità inventiva e di elaborazione linguistica sono stati scritti decine di libri ma finora nessuno aveva affrontato “Lo Cunto de li cunti” (detto anche Pentamerone, perché si svolge lungo cinque giornate) con il taglio proposto da Manuela Piancastelli, giornalista, saggista, imprenditrice vitivinicola. “Napoli, zuccaro & cannella. Cibi e vini da favola nel Cunto de li Cunti”, da qualche giorno in libreria, è una lettura assolutamente inedita del capolavoro basiliano (arricchita dalle illustrazioni di Giusy Ghioldi) che viene per la prima volta analizzato per i suoi contenuti enogastronomici. 

Basile adopera continuamente il tema del cibo. Innanzitutto molte fiabe portano nomi di cibi: Petrosinella (Prezzemolina), Li ddoie pizzelle (Le due pizzette), La serva d’aglie (La selva di agli), La mortella, Li tre cetra (I tre cedri), Le sette cotenelle. La stessa protagonista del Cunto, la triste principessa di Vallepelosa, ha un nome che è tutto un programma. Si chiama infatti Zoza, nome che non esiste, inventato di sana pianta da Basile. Ora la parola zoza, che nel napoletano moderno indica cosa sporca e disgustosa, è una contaminazione dialettale della parola francese sauce, ossia salsa, che si pronuncia sôs. E stiamo solo all’antefatto, ma già qui c’è una carica dissacratoria enorme nei confronti della cucina “alta” anche di modello francese, ben conosciuta a Napoli per via del dominio angioino (1282-1442). 

Nel Cunto il cibo è metafora, enumerazione fantastica, è sogno, desiderio, fuga dalla realtà. Ma anche un cibo vero, fatto di odori, sapori, ricette, ingredienti che ci portano nel cuore della Napoli barocca, che ne delimitano i gusti, gli spazi, ne descrivono la geografia e ci racconta di grandi rivoluzioni, come fu quella della pasta, senza la volontà di raccontarcela veramente. Ne parla, e questo basta. Citazioni involontarie, le chiama Emilio Sereni, ed è così per Basile come per gli autori napoletani a lui coevi o giù di lì, prima di tutto Giulio Cesare Cortese, poi Filippo Sgruttendio e Pompeo Sarnelli

Manuela Piancastelli è andata alla ricerca di un pezzo di storia di Napoli fatta anche di zucchero e cannella, di marzapane e verdure, di pasta e di vino. E ha disegnato un vero e proprio affresco di quella che era la civiltà napoletana a cavallo fra XVI e XVII secolo, sotto il governo spagnolo, una capitale multietnica, unica metropoli in senso moderno (era più popolosa di Londra e Parigi), con uno dei porti più importanti del Mediterraneo e una centralità incredibile nella vita europea. E lo ha fatto con una scrittura limpida e accattivante ed una approfondita ricerca che ha messo insieme fonti storiche e letterarie.

Nessun luogo più di Napoli era tanto ricco di profumi, odori di cibo, i gusti si mescolavano e ricreavano nuove alchimie che hanno poi dato luogo alla grande cucina napoletana settecentesca. Qui siamo agli albori, ai prodromi, all’ante da cui scaturisce il post. A Napoli c’era tutto. Le merci arrivavano da tutto il Regno e viaggiavano per tutto il mondo conosciuto, c’erano mercanti catalani, francesi, olandesi, soldati spagnoli, e un’aristocrazia imparentata con tutte le case reali europee.

E in città c’era una convivenza sociale che sfiorava la contiguità. 

Negli altissimi palazzi napoletani che sembravano sfiorare il cielo (che nascevano per aggirare il divieto di costruire nel centro storico), antenati dei grattacieli americani, coabitavano tutti i ceti sociali, dalla nobiltà alla borghesia fino al popolo minuto che popolava i bassi. Tutto ciò creava uno straordinario melting pot che disegnava anche un nuovo gusto trasversale. 

Le centinaia di osterie in città, tra cui la celebre Locanda del Cerriglio, preparavano notte e giorno “minestre maritate” e soffritti, zuppe e piccatigli, centopelle e tarantelli e nelle cucine si friggevano pizzette dolci e salate. E si bevevano, come scrive lo stesso Basile, “cento vini da stordire” con una biodiversità impressionante: Asprinio, Aglianico, Falanghina, Mazzacane, Mangiaguerra, Raspata, Cerella e i preziosissimi Greco e Lacrima, che venivano acquistati a caro prezzo dai mercanti di tutta Europa. Giambattista Basile ci porta per mano dentro questo mondo, dove il cibo è anche desiderio perenne e quindi è essenzialmente erotismo allo stato puro, dove si sognano amanti con la pelle bianca come ricotta e le labbra rosse come ciliegie, dove vige l’antropofagia amorosa perché ci si nutre di baci e la bellezza è un frutto non solo da cogliere, ma soprattutto da mangiare. E anche la morte non fa male perché il collo si taglia come fosse di cacioricotta e tutto sembra meno terribile anche se le fiabe, come è noto, sono cattivissime e crudeli e Basile non sfugge a questo “topos”. 

Le iperboli, i neologismi di Basile, le sue bizzarre metafore sono note agli studiosi. Nel leggere il Cunto, sembra di sentire ridere Basile stesso perché si capisce che si è divertito a entrare, con mille artifici meravigliosi, in una lingua onomatopeica, piena di suoni misteriosi e letteralmente intraducibile che userà solo – come nota Piancastelli - quattro secoli dopo, Andrea Camilleri. Una lingua che dipinge più che descrivere, fotografa più che raccontare, ma che è scultura plastica e profonda come fu la pittura del suo grande contemporaneo Caravaggio. Però è una lingua complessa che è lo specchio della complessità della vita: si fa presto a dire “mangiare” ma usare ventotto diversi vocaboli per reiterare, sfaccettare, illuminare e arricchire un concetto è tutt’altra cosa. E se, come predicava Giambattista Marino, “è del poeta il fin la meraviglia”, qui non c’è traccia di finzione o di manierismo ma c’è invece il gusto di entrare nelle cose da un’altra porta, di tentare una lettura diversa della parola stessa.

Piancastelli è anche andata alla scoperta della storia dei singoli alimenti e dei vini, delle loro origini e del ruolo sociale che ricoprivano nel ‘600 a Napoli, soprattutto attraverso le testimonianze letterarie e i testi di viaggiatori e storici. Ed ha voluto raccontare cosa fosse Napoli a cavallo fra due secoli, quale fosse la sua condizione economica, strutturale, come vivevano i poveri e i ricchi, le “forme” della fame e dell’abbondanza, le ostentazioni alimentari e il loro ruolo nelle gerarchie sociali.

Ed ha evidenziato alcuni prodotti e pietanze che Basile cita più volte o che hanno un grande valore evocativo, poetico e storico come le verdure, di cui i napoletani erano appassionati consumatori e che hanno consegnato loro l’epiteto di mangiafoglie. E spiega al lettore perché dopo un secolo siano poi diventati mangiamaccheroni, strappando il nomignolo ai siciliani.

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