Braucci: «Le mani nella realtà per scrivere il cinema»

Berlino 2019: Roberto Saviano, Claudio Giovannesi e Maurizio Braucci con l'Orso d'Argento per "La paranza dei bambini"
Berlino 2019: Roberto Saviano, Claudio Giovannesi e Maurizio Braucci con l'Orso d'Argento per "La paranza dei bambini"
di Giorgia SALICANDRO
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Sabato 5 Giugno 2021, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 14:07

Due David di Donatello - per “Gomorra” di Matteo Garrone e “Martin Eden” di Pietro Marcello - Orso d’argento per “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, sceneggiatore, tra gli altri, anche di “Reality”di Garrone e “Pasolini” di Abel Ferrara, Maurizio Braucci è uno dei nomi di riferimento del cinema italiano, oltre che scrittore acuto, autore teatrale, giornalista, regista di documentari. Ma guai a chiamarlo “insider”. Nato e cresciuto nella Napoli popolare, formatosi alla “scuola” dei centri sociali più che all’Università (la facoltà di Economia, lasciata a due esami dalla laurea per dedicarsi alla scrittura) non ci va per il sottile con l’establishment: il sistema del cinema? «fascista», quello della letteratura? «nazista».
Braucci in questi giorni è a Lecce per una masterclass sulla sceneggiatura cinematografica organizzata dall’Accademia mediterranea dell’Attore in collaborazione con il Museo Castromediano. «La formula per scrivere - ci tiene a dire - l’ho imparata andando in giro, indagando il mio quartiere, oltre che leggendo tanto. Bisogna mettere le mani nella realtà».

Alcuni suoi successi da sceneggiatore sono incentrati su storie di camorra, come anche il suo primo romanzo, “Il mare guasto”. Un tema, certo, importante, ma che rischia di essere inflazionato a giudicare dal profluvio di produzioni degli ultimi anni. Che cosa ne pensa?

«Che si tratti di camorra, mafia o ‘ndrangheta, credo sia necessaria quella narrazione che mette le mani negli aspetti della realtà che restano invisibili finché non diventano fatti di cronaca nera. “Gomorra” ha coinciso con un grande momento di denuncia, poi via via, certo, c’è stata una sovraesposizione e una mercificazione, legando il tema al prodotto-thriller. D’altro canto il rischio è che non se ne parli. Quando ho scritto “Il mare guasto” ho avuto, soprattutto a Napoli, non poche critiche. E però, è un paradosso che divenga scandaloso non il fenomeno, ma il fatto di raccontarlo. Il punto è che molto spesso questo racconto infastidisce perché mette il dito nella piaga, richiama a delle responsabilità».

Cambiamo “set”. Anche il Salento, un po’ come Napoli, da alcuni anni è oggetto di un grande interesse da parte dell’industria cinematografica. Ma il pericolo di un appiattimento della narrazione su un’immagine “da cartolina” è dietro l’angolo. Lei, che lo frequenta da anni, quale Salento vede?

«Sì è vero, conosco il Salento soprattutto grazie a un caro amico originario di Carovigno, Vincenzo Saponaro, un medico di straordinaria intelligenza venuto a mancare nel periodo del Covid. La Puglia è una regione economicamente più sviluppata della media meridionale, che ha avuto il merito (a differenza della Campania) di portare avanti una visione di ciò che voleva essere. Questo “modello California”, di equilibrio tra mercato e risorse naturali ha funzionato.

Si tratta però di un modello che qui come altrove mostra anche dei limiti. Da alcuni anni faccio una mia battaglia contro la formula “sviluppo sostenibile”, perché secondo me, in realtà, il vantaggio è poi sempre del mercato. Anche in Puglia, mi sembra, ci sono evidenze di queste mancanze, nella devastazione delle colture, nelle reti idriche ancora non curate a sufficienza, come anche nel sistema sanitario. Non bisogna dimenticare che il benessere passa anche da qui».

Domanda di rito: a quali progetti sta lavorando?

«Sto chiudendo un lavoro con Pietro Marcello che mette insieme musica e fiaba. Sto anche girando un documentario da regista, che utilizza la vicenda dei 99 Posse per raccontare il momento di grande riflessione degli anni ‘90 permeato dal movimento no global e distrutto con i massacri di Genova. Eppure quelle domande, poste in maniera a volte chiara a volte meno chiara, tornano ancora oggi nell’epoca di una pandemia che ha coinvolto il mondo intero».

Un suo racconto è comparso nel 2000 nell’antologia “Disertori”, un progetto concepito nell’ambito di una collana, Stile libero di Einaudi, importante anche nella sua dimensione di “laboratorio”. Ci sono, oggi, realtà del genere in Italia per chi scrive?

«Sarò netto. La mia opinione, a 54 anni, è che il mondo del cinema è un mondo fascista, perché gerarchico, centralizzato, e quello della letteratura è un mondo nazista, in cui piccoli gruppi si fanno la guerra o si accordano tra di loro. Credo che l’unica risorsa possibile per un giovane scrittore sia quella di avvalersi di un sistema alternativo, di partecipare a circoli letterari intesi come spazi aperti alla discussione. Scrivere tutti i giorni, leggere cose che permettano di affinare una visione della realtà, che è poi la cosa più importante. In questo senso non credo alle scuole di scrittura, se non come occasioni di confronto e conoscenza».

In questi giorni è qui per questo, per proporre la sua esperienza a un gruppo di persone che vogliono approfondire il mondo della sceneggiatura. Lei, come ha cominciato?

«Da scrittore è stata importante l’esperienza del centro sociale occupato Diego Armando Maradona, durante la quale ho sentito forte l’esigenza di raccontare realtà difficili con cui venivo in contatto. Certo c’erano poi le mie letture, anche di riviste come “Linea d’ombra” di cui mi cibavo avidamente. Per quanto riguarda il cinema, ho iniziato con il documentario, una possibilità facilitata dalla nuova tecnologia che permetteva di abbattere i costi di riprese e montaggio. Da lì ho imparato il mestiere. Ma la “scuola” viene piuttosto dal mio lavoro di educatore, dal progetto “Arrevuoto” ad esempio, che mi ha insegnato a lavorare nell’estemporaneità, tutte cose che riporto in ciò che faccio: “Bella e perduta” di Pietro Marcello l’abbiamo praticamente scritta girando, e anche per “Pasolini” di Abel Ferrara ho vissuto molto il set».

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