Quelle offese a fior di pelle, ma che razza di pregiudizi

Quelle offese a fior di pelle, ma che razza di pregiudizi
di Rosario COLUCCIA
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Domenica 25 Agosto 2019, 18:41
Di mestiere faccio il linguista. Parlando della scomparsa della grande scrittrice afroamericana Toni Morrison, Nobel per la letteratura nel 1993, nelle scorse settimane i media hanno ricordato i temi che, variamente declinati, percorrono le sue opere. Il ricordo, l’impossibilità di dimenticare una parte della storia americana che tanti invece rimuovono: i neri morti durante la traversata dell’Atlantico compiuta a bordo delle navi negriere, la schiavitù, il razzismo che ancora oggi attraversa la società d’oltre oceano. L’Italia non è un paese razzista, ripetevano in molti fino a una trentina di anni fa; ma un razzismo sottile avvelenava già allora la nostra società, la discriminazione dei settentrionali nei confronti dei meridionali. Poi sui barconi sono arrivate persone con la pelle più scura della nostra, e ci siamo scoperti razzisti. 

Le cronache di quest’estate pullulano di episodi razzisti. Il razzismo è di moda, incoraggiato da politici alla ricerca di voti e di facili consensi. Odiare e far odiare qualcuno è più semplice che affrontare e risolvere problemi intricati. Una certa politica nasconde le proprie mancanze creando dei nemici da combattere. Anche la lingua si è inasprita, parole di odio si leggono e si ascoltano di continuo. 

In Italia il razzismo ha radici remote. Il primo numero della rivista «La difesa della razza» uscì il 5 agosto 1938. In copertina erano raffigurati i volti affiancati, con tratti somatici molto marcati, di un ariano, di un ebreo e di un nero; una spada (impugnata da una mano esterna) separava il primo volto dagli altri due. La rivista nasceva nel clima di piena adesione del regime fascista all’ideologia nazista. Le leggi razziali, applicate in Italia fra il 1938 e i primi anni quaranta, furono rivolte prevalentemente contro le persone di religione ebraica. Cittadini italiani venivano da un giorno all’altro ferocemente discriminati e la loro vita quotidiana diventava di colpo impossibile. Il peggio venne dopo. Con rastrellamenti in molte città, a partire da Roma, gli ebrei italiani vennero spediti nei lager nazisti del centro Europa: fu la partecipazione attiva dell’Italia all’olocausto. Pochissimi sopravvissero ai campi di concentramento. Primo Levi pubblicò nel 1947 Se questo è un uomo, descrivendo le terribili condizioni di vita (e di morte) nel campo di Moniwitz (satellite di Auschwitz), fino all’arrivo dei liberatori russi, il 27 gennaio 1945 (quel giorno, il 27 gennaio, è diventato dal 2005 il «Giorno della Memoria», per ricordare le vittime dell’olocausto). Levi ha scritto: «Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo». 

Le parole non sono neutre. Non è neutra la parola razza, sulla cui interpretazione distorta si è basato l’olocausto. La lingua aiuta a capire. L’etimologia della parola razza è stata per decenni controversa. La soluzione, inappuntabile, fu trovata dal massimo filologo del Novecento, Gianfranco Contini, confrontando il testo italiano più antico nel quale ricorre la parola razza (l’Intelligenza) con il testo francese da cui deriva per traduzione (Faits des Romains). Pompeo è rinchiuso a Durazzo. Cesare lo assedia, cavalcando «sovr’un destrier di grande razzo» traduzione, parola per parola, del francese de grand haraz, dove haraz significa ‘allevamento di cavalli’. Dunque «destrier di grande razzo» significa ‘cavallo proveniente da un grande allevamento’. La forma razza dell’italiano si spiega con la trafila l’haraz >l’arazzo-a >la razza, con discrezione dell’articolo, fenomeno per cui la a- iniziale del sostantivo si fonde con la -a finale dell’articolo che precede (altri esempi: l’abadessa >la badessa, l’aguglia >la guglia; anche nei dialetti: l’arena >la rena, l’assugna >- axungia - la sugna). 

A una parola-simbolo della nostra storia veniva riconosciuta «una nascita zoologica, veterinaria, equina» (Contini), trasformandola da nobile segno di eccellenza e di distinzione (usato per discriminare e per sopraffare) a marchio di animalità, che non consente utilizzazioni fuorvianti (Lino Leonardi). Abbiamo altre prove di questa spiegazione etimologica. I testi della cancelleria angioina e poi aragonese di Napoli (fra tre e quattrocento) danno molte attestazioni di aratia/arazza/razza, con lo stesso significato “animale” (le ha trovate Francesco Sabatini). Un’etimologia per essere corretta deve ricostruire la storia della parola, usi e sviluppi (Rosario Coluccia). Poco per volta, la forma femminile priva dalla vocale iniziale (la razza) allarga l’originario significato di ‘allevamento di cavalli’ sino a casi in cui il termine rende il concetto di ‘discendenza’, ‘stirpe’, e anche quello di ‘tipo’, ‘genere’, ‘qualità’ («ma che razza di pensieri ti vengono», «ma che razza di errori fai», ecc.). Con questi nuovi significati la parola, sviluppatasi nel regno di Napoli, dall’ambiente meridionale si trasmette alla lingua nazionale; e poi da lì si diffonde nelle altre lingue, diventa universale: fr. race, sp. raza, ingl. race. Dal mezzogiorno all’Italia, dall’Italia al mondo (se ne parla anche in un libro d’imminente pubblicazione che raccoglie gli atti di un convegno organizzato dalla Camera Civile di Lecce, 28 settembre 2018). 

Oltre settant’anni fa all’Assemblea costituente si discusse sull’opportunità di inserire la parola razza all’articolo 3 della Costituzione («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza (...)»). Alcuni preferivano abolire quella parola, che evocava genocidio e barbarie; alla fine si decise di inserirla, nonostante l’atrocità del ricordo. Bisognava nominare quella parola, per “depurarla” e restituirla all’uso comune. Il Presidente della Commissione, Meuccio Ruini, dichiarò: «Comprendo che vi sia chi desideri liberarsi da questa parola maledetta, da questo razzismo che sembra una postuma persecuzione verbale; ma è proprio per reagire a quanto è avvenuto nei regimi nazifascisti, per negare nettamente ogni diseguaglianza che si leghi in qualche modo alla razza (...) che vogliamo affermare la parità umana e civile delle razze».

Ruini aveva ragione, una censura lessicale non avrebbe cancellato i crimini commessi in nome di quella parola. Parlare in maniera esplicita può aiutare a non ripetere gli errori. Oggi la parola riprende vigore, con conseguenze nefaste. Nella nostra società il razzismo sgorga di continuo, banalizzato e sdoganato. Chi odia gli altri non si nasconde più, si esibisce sulle reti sociali, allo stadio, per strada. Il razzista non si vergogna. C’è stata una liberazione di certe parole anche nel discorso politico internazionale. Oggi che il razzismo rinasce, quell’idea può essere combattuta solo con la razionalità e con azioni efficaci, senza buonismi e senza approssimazioni. Il razzismo in Italia è più forte che in altri paesi perché non abbiamo saputo gestire in maniera razionale l’immigrazione. Abbiamo lasciato fare, pensando che i problemi si risolvessero da sé. Come con la xylella, che ha devastato irreparabilmente il sud nel silenzio colpevole dei politici pugliesi. Ora si sono svegliati e si addossano reciprocamente la responsabilità del disastro (come se gli elettori fossero tutti imbecilli).

Pensiamo di chiudere i porti, e l’Italia è un enorme porto allungato nel Mediterraneo, di fronte ai paesi da dove milioni di persone fuggono. Il problema è epocale, la storia insegna che l’uomo si è sempre spostato sul pianeta, cercando luoghi dove vivere meglio. Sta a noi coinvolgere l’Europa, spiegando che la questione riguarda tutti. Gli uomini con la pelle più scura della nostra vanno integrati con il lavoro, garantendo condizioni di vita dignitose; non vanno sfruttati, tenuti ai margini, ridotti a bighellonare, a chiedere elemosina davanti ai supermercati, reclute facili della malavita. La Germania e i paesi scandinavi hanno saputo far meglio di noi: integrano gli immigrati, che lavorano in maniera conforme alle leggi di quei paesi, imparano la lingua, si aprono a nuovi modi di vivere, non ciondolano tutto il giorno aspettando sussidi o elemosinando. Di conseguenza gli abitanti di quei paesi non si sentono minacciati, imparano a conoscere il diverso, lì il razzismo è meno forte. Con benefici generali.

 
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