A Martina Franca l'arte e l’ideologia disegnate dal fuoco

A Martina Franca l'arte e l’ideologia disegnate dal fuoco
di Carmelo CIPRIANI
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Domenica 12 Giugno 2016, 21:31 - Ultimo aggiornamento: 21:41
Sono rari gli artisti come Fernando De Filippi che ad ogni stagione sanno ricominciare tutto dal principio senza nulla rifiutare di quanto generato nella stagione precedente, tessendo la propria ragnatela tra il prima e il dopo, tra ciò che è stato sperimentato e ciò che va sperimentandosi, in un rapporto interrotto di trovate e riprese. Artista al tempo stesso visionario e socialmente impegnato, è dedito, da oltre mezzo secolo, alla ricerca di raffinate soluzioni espressive, origine di una produzione polimorfa, eterogenea nelle sembianze ma coerente nei postulati, capace di spaziare dalla politica al mito, tra pittura e performance (celebre la sua trasformazione in Lenin, icona collettiva ed alter ego politico), assonanze pop e aspirazioni metafisiche, oniriche e finanche trascendentali, come talune installazioni all'apparenza desunte da antichi rituali.
La Fondazione Noesi di Martina Franca, tra le prime in Puglia ad interessarsi al lavoro dell'artista, ripercorre alcune tappe fondamentali del suo lavoro, indicandone congiunzioni e cesure. L'occasione è rappresentata dalla mostra “Le geometrie del fuoco”, parte di un progetto in progress dedicato ai quattro elementi, curata da Marina Pizzarelli e allestita da ieri nelle sale di Palazzo Barnaba a più di trent'anni dalle personali del 1980 e del 1983 - anch'esse volute e ordinate da Lidia Carrieri - a cui pure la rassegna odierna rinvia per mezzo delle opere esposte. Autentico file rouge della mostra è lo slogan “Arte è ideologia”, tradotto in più lingue e riprodotto in molteplici occasioni. Ultima in ordine di tempo è l'azione pensata e attuata in Valle d'Itria, dove il connubio morfemico ha perso la sua unità, operando sì una divisione verbale ma dando luogo anche ad un allargamento spaziale del messaggio, che nella doppia collocazione e nella duplice procedura esecutiva (mentre la parola “Arte” brucia di fronte ad un complesso di trulli, la parola “Ideologia” arde dinanzi al portone d'ingresso della mostra) non solo recupera il suo trascorso e rinvigorisce la sua forza, ma mette in collegamento natura e arte, luogo della produzione e luogo della promozione. Un messaggio consolidato per un intervento site specific eseguito in rappresentanza della produzione attuale, ma anche in omaggio all'occasione contingente e come documentazione del suo (e del nostro) hic et nunc esistenziale.
All'interno della mostra si procede con regolarità e attenzione filologica, passando dalle “Trascrizioni” e dagli “Slogan” degli anni Settanta ai “Miraggi” del decennio successivo. Girando per gli spazi della fondazione si ha la possibilità di osservare, attraverso lo sguardo privilegiato dell'artista, lo sperimentalismo di un'intera epoca, tra le più suggestive e problematiche della nostra storia, cogliendone contrasti, peculiarità e aspirazioni. L'inizio è rappresentato dalle trascrizioni in cirillico dei testi di Lenin, eseguite tra il 1975 e il 1976, in cui significato e grafia si coniugano e si compendiano in un'azione di evidente ascendenza concettuale: l'una giunge dove non arriva l'altro, compensando asprezza comunicativa e difficoltà di comprensione con un assetto formale astratto, minimale e sintetico.
La parola come espressione dottrinale è protagonista anche nei coevi “Slogan”, recentemente ripresi dall'artista come reazione al sopimento di ogni ideologia, ambizioso tentativo di un risveglio sociale, ieri come oggi. Frasi estrapolate dagli scritti di Marx ed Engels sono affisse nelle metropolitane e nelle piazze come stimoli per la coscienza collettiva, da Milano a New York, da Lisbona a Parigi, e di recente anche a Venezia, in occasione dell'ultima Biennale. Gli slogan non s'impongono ma si insinuano nel tessuto sociale, conquistando clandestinamente gli spazi urbani e acquisendo modi e tempi della pubblicità.
Marx, con i suoi scritti sull'arte, è protagonista anche nell'opera ambientale “Tra esibizione e occultamento” del 1976, documentata da ormai note fotografie d'epoca. Le spiagge della Sardegna e della Camargue si trasformano in monumentali pagine su cui trascrivere messaggi ideologici con l'aiuto di formelle. Nel compimento dell'azione il funzionamento del linguaggio si lega ai meccanismi della natura, alle trasformazioni di stato, collocandosi nell'effimero e confondendo il ruolo di produttore e fruitore. Il tempo che intercorre tra produzione della parola e la sua cancellazione tende ad annullarsi: essa si consuma pochi istanti dopo la sua scrittura, tendendo alla volatilità del verbo.
Dal mare come presenza, strumento concreto di azione artistica, al mare come mezzo riprodotto, evocato dal languido distendersi di tinte acquerellate, il passo è breve. Sul principio degli anni Ottanta, infatti, in un momento di generale ripresa degli strumenti tradizionali del fare arte, la serie “Miraggi” individua nell'immagine marina un rinnovato supporto in cui la parola riaffiora come labile presenza, traccia di vissuto e flusso memoriale. Due grandi lavori acquerellati, “La Ziqqurat” (1981) e “Il Tempio” (1983), ripensano in termini postmoderni la ricerca sul linguaggio fin qui compiuta, collocandola in opere dall'andamento modulare intrise di classicismo, in cui, come scrive la curatrice, «il Mediterraneo, il suo mito, la sua storia, diventano protagonisti di scenografie architettoniche evocanti memorie culturali in un fitto dialogo tra passato e presente».
La mostra, visibile fino al 31 luglio, con ingresso gratuito, dal venerdì alla domenica, dalle 18 alle 21, è promossa dall'Assessorato regionale al Mediterraneo, Cultura e Turismo ed è accompagnata da un pregevole catalogo con testo critico di Marina Pizzarelli e un'intervista di Marinilde Giannandrea.
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