Interviste / Nandu Popu: «Dialetto, pizzica e reggae: la scintilla a scuola»

Nandu Popu
Nandu Popu
di Adelmo GAETANI
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Domenica 27 Maggio 2012, 18:18 - Ultimo aggiornamento: 17 Marzo, 14:38
Vuole proprio sapere dove sono nati i Sud Sound System?.

Certo.

Glielo dico, nei bagni dell’Istituto tecnico industriale “Fermi” di Lecce.
Ci racconti meglio.

«Frequentavo quella scuola alla metà degli anni Ottanta, a me piaceva suonare l’armonica a bocca. Me la portavo sempre dietro, durante la ricreazione andavo in bagno e mi mettevo a suonare e cantare in dialetto. Forse ero bravo, si formavano capannelli. Un giorno si avvicinò Federico Vaglio, che poi sarebbe diventato Don Rico, e mi disse che a San Donato avevano costituito un gruppo musicale e mi chiese di farne parte».

E lei?

«Avevo qualche problema pratico, abitavo a Trepuzzi ed era complicato arrivare a San Donato. Ma, appena festeggiai la maggiore età, presi la patente e iniziai a fare su e giù. Dal 1987 al ’91 è stata la mia vita. Tanta passione, ma risultati ancora pochi».

Quando cambiarono le cose?

«I Sud Sound System nacquero ufficialmente nel ’91, ma non potevamo considerarci ancora professionisti. Si era formato un gruppo che oltre a me, Don Rico e Terron Fabio coinvolgeva altri ragazzi in varie attività, c’era il fotografo, chi disegnava i graffiti, chi si occupava dell’impianto audio e chi del gruppo elettrogeno. Noi cantavamo brani contro la mafia, contro l’eroina, cercavamo di parlare ai giovani, lavoravamo sodo e sudavamo per lasciare le tossine e vivere nel Salento. Questo era il nostro sogno».

I vostri dischi che fine facevano?

«Agli inizi non voleva venderli nessuno, giravamo tutto il Salento e portavamo copia-copia nei negozi. Una faticaccia. Dopo l’uscita di “Fuecu” le cose iniziarono ad andare meglio, poi un nostro disco fu stampato da “Il Manifesto”, che allora aveva un’etichetta, così molti a livello nazionale si accorsero di noi. Solo alla fine degli anni Novanta capimmo che dalla nostra passione era nato un lavoro che ci piaceva e gratificava».

Come ha scoperto la musica?

«Le prime esperienze musicali le ho fatte in chiesa. Facevo parte del coro e avendo una voce profonda mi tenevano in considerazione. Poi, a mio padre piaceva organizzare i festini in casa durante il Carnevale, si faceva così a quei tempi, e io dagli otto sino ai 18 anni ho fatto il dj, un dj casereccio, ma tutto serviva per fare esperienza. Mi piaceva conoscere e frequentare i ragazzi che facevano musica. Avevo una fissa».

Altre esperienze?

«Ne ricordo una, in particolare. La mattina, prima di andare a scuola spesso mi fermavo nel convento dei padri passionisti di Trepuzzi perché c’era padre Carlo che suonava brani di Bach all’organo. A me piaceva moltissimo, ero stregato da quei suoni».

Da Bach alla pizzica, bel salto?

«Lo ammetto. Ma, la pizzica segna la nostra identità, è ritmo, il ritmo è catarsi, è qualcosa che ti prende da dentro, come il reggae. Noi abbiamo attinto a piene mani alla scuola locale della pizzica realistica, andando anche oltre il realismo. Un brano come “Lu rusciu de lu mare” si serve della natura per costruire una storia astratta. Anche le nostre canzoni parlano di paesaggi, di giustizia sociale, di ambiente, la nostra è una musica del ghetto, di chi vuole gridare la sua rabbia, di chi vuole voltare pagina».

Sono in molti a riconoscere ai Sud il merito di aver sdoganato la pizzica dopo anni bui. È così?

«Quando negli anni Ottanta abbiamo iniziato con le prime dance hall, sulla scia della musica di Bob Marley, eravamo convinti di rivolgersi ai giovani».

Non è stato così?

«Potrà sembrare strano, ma venivano ad ascoltarci e a cantare e a suonare con noi gli anziani che uscivano dalla catacombe, dove per decenni erano stati ricacciati da un modernismo distruttivo di ogni tradizione. Allora, la pizzica era qualcosa da fare quasi di nascosto, qualcosa di cui vergognarsi. Non parliamo poi del dialetto, era spregevole usarlo. Il Salento non esisteva, lo scambiavano con il Cilento. C’è chi racconta che Aldo Moro preferiva farsi passare per Barese, essere di origini salentine poteva essere penalizzante. I Sud hanno avuto il merito di intrecciare nuove sonorità con la musica popolare e di rilanciare il dialetto, la nostra lingua, la lingua del popolo. Abbiamo avuto il merito di aprire porte rimaste chiuse per lungo tempo, siamo andati nelle università, nei centri sociali per proporre la nostra musica. Dovevamo continuare il discorso iniziato dai nostri musicanti, dovevamo sviscerare le storie di sfruttamento e di violenze sulle donne che si nascondevano dietro il mito della taranta. Ci siamo fatti carico di un’eredità storico-culturale, in un primo momento anche inconsapevolmente, e l’abbiamo portata avanti dando calci alle difficoltà iniziali e alla diffidenza che ci circondava. Oggi possiamo dire che l’operazione-verità è riuscita, anche se rimane l’impegno a scavare ancora nella nostra storia».

La diffidenza riguardava il ricorso al dialetto?

«Sì, molti ci mettevano in guardia e ci dicevano che non avremmo potuto parlare oltre i confini del Salento».

Sbagliavano?

«Certo, perché la musica è un codice che può prescindere dal linguaggio. Del resto quanti ascoltano canzoni in inglese senza conoscere il significato delle parole? Il dialetto è una lingua con una sua forza evocativa che viene colta anche da quanti sono estranei. È la nostra esperienza che ce lo dice. Noi abbiamo cantato in ogni parte del mondo riscuotendo successo ovunque. La musica unisce, annulla le differenze perché è universale per sua natura. E poi il ricorso al dialetto ha anche significato sfida alle convenzioni».

Cioè?

«All’inizio è stato un fatto istintivo, oggi ci rendiamo conto di aver dato un contributo decisivo a salvare una lingua che si stava estinguendo, come denunciava Oreste Macrì. Si trattava di una reazione nei confronti della gente di città che ci guardava con sufficienza e diceva “quistu è te paese”. Così parlavo in dialetto per rivalsa e trovavo un grande piacere, per me era un gesto estremo, un modo per ribellarsi. Prima ci offendevamo se ci chiamavano terroni, oggi ci piace».

I nuovi obiettivi dei Sud?

«Stiamo lavorando a un nuovo disco che uscirà l’anno prossimo. Quest’anno abbiamo puntato su una compilation di nostri brani storici. In più, siamo impegnati nell’attività di produzione di giovani artisti che lavorano con noi nello studio».

Sta per andare in libreria un suo romanzo (“Salento Fuoco e Fumo”) edito da Laterza. Qual è la storia?

«Negli ultimi anni abbiamo assistito a cambiamenti sociali e comportamentali che ho sentito il bisogno di raccontare. Abbiamo l’inquinamento, le fabbriche che uccidono, i giovani senza lavoro, i luoghi comuni che sono una sorta di cappa stesa sulla realtà per impedire di voltare pagina. Ora il Salento vuole svegliarsi e i giovani sono la parte più attiva di un cambiamento che voglio raccontare quasi per integrare il messaggio trasmesso con la musica».

Che cos’è il Salento per lei?

«È la mia terra e questo potrebbe bastare. Devo aggiungere, però, che prima il Salento non esisteva e forse non esistevamo neanche noi. La presa di coscienza di chi siamo è maturata negli ultimi 20 anni e i Sud Sound System hanno dato un contributo notevole. Il messaggio che con la nostra musica abbiamo portato avanti è che una terra deve impegnarsi a promuovere la socialità e la legalità per sconfiggere le arretratezze e, una volta per tutte, la criminalità organizzata. La paura è tornata dopo l’attentato alla scuola di Brindisi e la morte di Melissa, ma è durata un attimo, poi c’è stata la reazione. Abbiamo detto no alla mafia ed è stato un no gridato a voce alta da tutti e, in particolare, dai giovani. La nostra musica vuole essere una risposta forte a chi ci vorrebbe prigionieri della paura, è un messaggio vitale che fa bene al corpo e alla mente. La vita ce la possiamo e ce la dobbiamo costruire da soli: è il punto dal quale non si deve prescindere. La cultura e la musica ci aiutano in questo percorso di liberazione che noi salentini dobbiamo ancora completare».

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