De Cataldo: «L’occhio dello storico su sangue e delitti in tv»

De Cataldo: «L’occhio dello storico su sangue e delitti in tv»
di Claudia PRESICCE
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 9 Novembre 2022, 05:00

L’appeal delle storie criminali è sempre potente, ma non basta. A tirare dentro alla narrazione di questi eventi è la forma in cui viene modulata la storia, le scelte di chi racconta. E per quanto (quando di cronaca si tratta) un delitto sia già scritto, è il narratore che crea un suo storytelling sul quale far scorrere gli elementi: indagini, protagonisti, contesti. È per questo che il caso di Giancarlo De Cataldo e del suo “Cronache criminali”, comparso su Raiuno in seconda serata lunedì conquistando subito il pubblico e guadagnandosi un’ottima percentuale di share, non stupisce. Lo scrittore (magistrato in pensione) che ha una storia di “narratore” di storie criminali (vere e non) tra romanzi, film, serie televisive di grande successo, ha confezionato un prodotto convincente anche per la tv. Lontano da pruderie e spettacolarizzazioni, ha puntato sulla contestualizzazione storica, e su una narrazione ben circostanziata nella quale scorre sulla scenografia l’Italia di quegli anni. Il primo delitto trattato è stato quello della modella Terry Bloom che, al tempo della Milano da bere, si sbarazzò dalle attenzioni ossessive di un facoltoso rampollo con un colpo di pistola. Scritto con Giovanni Filippetto, il programma vedrà ogni lunedì la ricostruzione di tante storie delittuose tra cui quelle di Pierpaolo Pasolini e Pietro Maso. Intanto De Cataldo è tornato in libreria con un nuovo libro: “Dolce vita, dolce morte” che inaugura una nuova collana di Rizzoli di “novelle nere” d’autore con la storia di un omicidio irrisolto nella Roma della dolcevita.

De Cataldo, ci risiamo. Un nuovo successo, nuovi racconti criminali, ma un formato che però mancava al suo curriculum: la ricostruzione in tv di una pagina di cronaca nera. Che cosa l’ha convinta?

«Un incontro fortunato e una proposta Rai di raccontare i crimini a modo mio. La differenza della mia proposta è stata ricostruire non soltanto un delitto, ma uno scenario, le causali e il tempo intorno al delitto. Non c’è al centro quindi solo un fatto di cronaca nera che ci colpisce, non c’è sensazionalismo, ma la volontà di capire perché ci colpisce e il significato di questo omicidio in quel dato momento storico. Nel caso di Terry Bloom c’è la Milano degli anni Ottanta».

L’impressione, mi corregga se sbaglio, è che lei sia particolarmente attratto dalla ricostruzione storica. Ricordo che tra i suoi romanzi ci sono titoli come “I traditori” sul Risorgimento.

«Vero, se non avessi fatto il magistrato e lo scrittore avrei fatto lo storico. Sono assolutamente affascinato dalla storia perché conserva le nostre radici, capiamo tanto del presente attraverso il passato. E poi c’è una maledetta tendenza degli uomini a ripetere nel tempo i loro comportamenti. Affiorano analoghe dinamiche di potere o tra uomo e donna: cambiano perché mutano i tempi e la percezione delle cose, dei conflitti, ma alcune linee di tendenza sono assolutamente immutabili. E questo la Storia ce lo spiega».

Riguardo al grande pubblico che segue queste storie: perché secondo lei la gente è interessata agli omicidi? È un’esigenza di ricerca della verità, un bisogno di giustizia o più morbosità?

«Ci sono tutte queste cose che lei segnala, anche una quota di morbosità che nel programma cerchiamo però di contenere evitando di accentuare i fattacci.

I delitti che ci colpiscono sono soprattutto quelli che ci lasciano delle domande: la Milano glamour, tutti che si divertono e spunta l’omicidio, il male. Oppure per quel che riguarda il libro, la leggerezza della Dolcevita da una parte e dall’altra il suo lato oscuro. C’è anche uno sbigottimento umano di fronte ad un delitto, il percepire l’idea che esista il male davvero. Tante volte cerchiamo di tenerlo lontano da noi, credendo alla storia del mostro, dell’uomo nero, ma il male invece è vicinissimo. Crediamo ai racconti fantasiosi, invece dovremmo studiarlo il male».

Entriamo allora nel dettaglio del libro. La storia di Greta è in realtà la ricostruzione romanzata di un cold case di cronaca nera che segnò gli anni Sessanta: una giovanissima ragazza tedesca col sogno di fare l’attrice ritrovata uccisa a coltellate in un palazzo di Via Veneto.

«C’è una parte di memoria personale: io bambino in visita a Roma e portato in giro da mio cugino nella sua auto, una MG che è la stessa con cui gira Marcello il protagonista, il giornalista che segue il caso. Non sapevo della Dolcevita allora per ragioni anagrafiche, l’ho conosciuta anni dopo dai film di Fellini, e ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto viverla quella stagione. Così l’ho voluta rievocare nel romanzo e dare un segnale di passaggio, perché il romanzo è diviso in quattro tempi, passa dal ’63 e ’64, al ’74 e poi alla metà degli anni Ottanta. Gli scenari cambiano seguendo l’evoluzione del personaggio, ma resta ferma Roma come ennesimo atto d’amore».

Nel caso di Greta, ricorda la classica storia della ragazza alla ricerca del successo che entra in un certo mondo dove invece incontra la tragedia, quasi una sorta di “punizione”…

«Sarei troppo moralista se pensassi a una punizione, c’è il rammarico di una vita sprecata. Per carità ci sono narrazioni nobilissime in cui il protagonista commette un errore e viene punito, ma qui c’è invece solo affetto per questa ragazza. Il finale sospeso racconta molto, come se in fondo fosse stata Roma…».

I giornali, i media, inseguirono la notizia anche a quel tempo. Che cosa è cambiato e quale è la percezione dalla parte anche di chi si è trovato a gestire un processo reale dopo uno mediatico?

«La stampa del tempo seguiva in presa diretta il caso, ho ritrovato tutte le notizie sugli articoli. C’era anche la solita divisione tra innocentisti e colpevolisti. La differenza sostanziale oggi è la valenza negativa e aggressiva nei confronti di chi fa le indagini, dagli inquirenti ai giudici. Si è sgretolato il muro di rispetto di un tempo, prima si cercava piuttosto di capire chi fosse il colpevole. C’era al centro la ricerca della verità, oggi c’è un continuo processo a chi indaga».

Ma quanto le ingerenze dei media “entrano” nel processo, condizionano le cose?

«Il giudice è pagato per non essere condizionato, come uno psicanalista. È fastidioso però quando i difensori di una teoria diventano preponderanti, quando si impone la versione dei fatti di qualcuno. Questo rischia di alterare le regole del gioco».

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