Francesco De Gregori: «La storia d'Italia tra musica e poesia»

Francesco De Gregori: «La storia d'Italia tra musica e poesia»
di Claudia PRESICCE
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Mercoledì 5 Agosto 2015, 23:03 - Ultimo aggiornamento: 7 Ottobre, 18:16


Se qualcosa rimane degli ultimi quarant’anni italiani sono certamente le storie del cantautore che ha raccontato di Alice che guarda i gatti, di un treno che riporta tutti a casa dopo la guerra, di una stella nata nell’Africa d’Italia, della paura di Nino di tirare un rigore, dell’Italia che resiste, nuda come sempre, e tanto altro. Ci ha spiegato, in mille narrazioni in musica, che la Storia, quella vera, siamo noi. La vita artistica di Francesco De Gregori è scritta sul solco della migliore musica italiana, ed è straordinario che questo alto raffinato signore barbuto, oggi più comunicativo che mai, che fa il musicista da quattro decenni, ricordi la Notte della Taranta a Melpignano come uno dei momenti più belli della sua vita musicale.



Un repertorio lungo oltre 40anni che fa parte della vita degli italiani: Francesco che effetto le fa?

«È un bel pezzo di vita. Quarant’anni sono quarant’anni. Ormai devo accettare il fatto che la mia è in effetti la vita di un musicista e non posso più cambiare mestiere. Ho seminato queste canzoni, alcune sono venute meglio altre peggio, ma il pubblico c’è sempre stato, anche quando ho scritto cose più difficili o brutte. Sento di appartenere al pubblico, non è il pubblico che appartiene a me, ed è molto gratificante. È un bel momento e se guardo indietro a questi quarantadue anni sono contento che siano passati così».



Se pensa all’Italia dei suoi esordi, alla Roma del Folkstudio, che cosa le manca e che cosa rimane di quei giorni?

«Folkstudio era un bellissimo posto, ma fondamentalmente ero così giovane che la vita era tutta uno scintillio di cose. A 24 anni hai il mondo davanti e quel senso di freschezza, stupore, entusiasmo, ansia e voglia di mordere il futuro ora non c’è più per motivi anagrafici. Non so se lo rimpiango, è stato bello e adesso vivo un’altra età ed è bella pure questa. Intorno la città è cambiata, come tutto sempre cambia nel tempo; non c’è più il Folkstudio, ma io non vado più in giro di notte fino alle 3. Però la mia vita è comunque ricca, e questa città ha sempre tante suggestioni: se in parte tutto è cambiato, dentro resto sempre lo stesso uomo».



Le sue canzoni, in “Vivavoce” come nei suoi concerti, cambiano nel tempo: assomigliano un po’ alle nostre facce.

«Sì, la musica è una cosa viva, non si può fissare per sempre. Le canzoni cambiano una sera dopo l’altra, è impossibile rifarle nello stesso modo e io ho sempre coltivato questo senso di improvvisazione e rinnovamento delle cose che ho scritto. Il nuovo disco testimonia che le armonie ti portano su strade nuove, per cui “Alice” del ’72 con quegli accordi è perfetta. Però oggi rifatta con due chitarre e un amico come Ligabue che ne canta un pezzo è bella uguale, è diversa per la vitalità della musica, ma in fondo è la stessa».



Che cosa racconta meglio la realtà: la musica o la letteratura?

«La letteratura può andare più in profondità. Nei giorni scorsi è morto Vassalli e per esempio il suo è stato un lavoro così profondo nel raccontare la storia d’Italia, anche in modo drammatico e doloroso, come in “La notte della cometa” il suo libro su Dino Campana. Noi cantautori utilizziamo un mezzo veloce e fragile che dura solo tre minuti. Però a volte miracolosamente anche una canzone si pianta nella memoria storica di un paese e testimonia la storia. Sono quindi due forme di racconto diverse. Una viaggia molto più in profondità perché in trecento pagine sviscera le cose, un’altra viaggia con più leggerezza, ma colpisce, può dare una “funcicata”... Canzoni come “Volare” o “Sapore di sale” o “Vita spericolata” hanno raccontato e raccontano molto in tre minuti».



Beh anche “Atlantide” o “Alice” rievocano sensazioni dell’epoca in cui sono nate…

«Ma non vorrei celebrarmi parlando delle mie».



Diciamo allora che a volte la musica ha la capacità di ricostruire una suggestione, l’atmosfera di un’epoca al di là di tante parole.

«Certo, l’aspetto musicale è un passe-partout per arrivare immediatamente all’attenzione del pubblico».



Ha fatto due audiolibri in cui legge Conrad e Kafka: perché, sono tra i suoi autori preferiti?

«Sì, certo. Quando mi hanno chiesto di leggerli pensavo di non essere in grado, poi per amore di “Cuore di tenebra” e di “America”, e perché sono un incosciente e ho pensato di non poter star sempre con la chitarra in mano, ho detto di sì. Alla fine mi sono davvero divertito e ho scoperto che leggere un libro a voce alta dà emozioni in più rispetto a quando leggi da solo. Provate a leggere un libro a qualcuno, vi sorprenderà».



Che cosa l’è rimasto della Notte della Taranta nel Salento?

«Tanto, il mio amico Ambrogio Sparagna era maestro concertatore e mi volle far fare un tuffo nella pizzica. Io la conoscevo, ma da lontano: altra cosa è stare lì al centro di quella notte. Ricordo un pubblico caldo, entusiasta, grande amore per la terra, per la musica e grande cultura. Mi fecero cantare un pezzo in griko, una lingua a me sconosciuta, e ne apprezzai subito la musicalità. Poi facemmo Dante al ritmo della pizzica: una scommessa, quasi una provocazione, portai il padre della lingua italiana dentro la sonorità della taranta. Fu una grande notte di gioia e sperimentazione, condivisa anche con Giovanna Marini e Piero Pelù. Uno dei più bei ricordi della mia vita di musicista. Quest’anno farà un bel lavoro il mio amico Ligabue: insomma siete un popolo di gente meravigliosa che sa usare la musica e declinarla in vari modi».



Una delle sue ultime volte a Lecce è stato con Lucio Dalla al Politeama.

«Ricordo perfettamente quella serata, come tutte le cose che ho fatto con Lucio, le ultime soprattutto».
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