La lezione del Salento e la retorica sul Sud abbandonato

di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 14 Agosto 2016, 19:31 - Ultimo aggiornamento: 19:41
L'esplosione turistica della Puglia e, in particolare, del Salento di queste settimane allunga e rende ormai strutturali il momento magico e l'attrazione fatale che da anni sta vivendo questa parte del Mezzogiorno. Al di là delle non poche criticità che persistono e che vanno affrontate - anche se rispetto all'estate scorsa molti passi in avanti sono stati compiuti -, la straordinaria performance di questa estate può e deve spingere l'attenzione su ciò che serve davvero al Sud per riuscire a correre e non più a rincorrere.

Anche se inizialmente sostenuto da fattori contingenti (dalla crisi greca alle rivoluzioni arabe), il successo non è per niente casuale, ma il raccolto di quanto seminato nel passato grazie a una intelligente e diversificata politica di investimenti regionali nella promozione del territorio. E ciò dovrebbe indurre a qualche sana autocritica quanti, negli anni scorsi, demagogicamente denunciavano come irresponsabili sprechi - di fronte all'incalzare della crisi e al dilagare della disoccupazione - gli investimenti regionali nel turismo, nella cultura, nel sostegno alle produzioni cinematografiche, nell'organizzazione di eventi e spettacoli di richiamo, nella partecipazione alle borse internazionali, nella valorizzazione in Italia e all'estero dell'enogastronomia pugliese.

Il vendolismo avrà avuto anche non pochi limiti e marcate contraddizioni nell'azione di governo, ma non mancava di una direzione di marcia e di una visione del futuro che hanno contagiato anno dopo anno anche le amministrazioni pubbliche locali. Oggi è intellettualmente onesto riconoscere i meriti su questo versante. In un settore dove la competizione globale è senza esclusioni di colpi e di mezzi, i successi non arrivano mai per caso, sono sempre frutto di processi, mai di atti e interventi isolati o di sole contingenze fortunate.

Il caso pugliese e, in particolare, il caso Salento dovrebbero aprire una riflessione seria e, se possibile, “de-ideologizzata” sulla necessità di un aggiornamento del meridionalismo, sulla cifra che deve contraddistinguere ai nostri tempi un impegno autenticamente riformatore nell'azione politica e di governo verso il Sud. In verità, sarebbe ora che i meridionali, a cominciare dalle élite intellettuali e dal ceto politico, rifuggissero definitivamente dalla stantìa retorica sul Mezzogiorno sedotto e abbandonato, dimenticato e ingannato, sulla lontananza e sui tradimenti dello Stato centrale verso il Sud negli ultimi anni, spesso accompagnata dalla litania sul mancato riconoscimento della strategica centralità del Mediterraneo. Non perché non sia vero, ma perché quella retorica appare solo un esercizio sterile e propagandistico se non si prende atto delle ragioni storiche, e non solo politiche, della progressiva disattenzione e marginalità delle politiche pubbliche nel Mezzogiorno. Non solo. In quella retorica si nasconde il pericolo di una lettura enfatica e mitizzata delle “sorti magnifiche e progressive” inseguite e raggiunte dalle vecchie politiche pubbliche nel Mezzogiorno, naturalmente in contrapposizione con la pochezza degli interventi a sostegno del Sud degli ultimi anni. La nostalgia del passato è sempre ingannevole. Del passato va ricordato tutto, non solo i primi dieci anni virtuosi della Cassa per il Mezzogiorno. Va ricordato la spaventosa cifra spesa (gli ultimi studi stimano in oltre 500 miliardi di euro il flusso di denaro pubblico in un secolo) per ridurre il divario con il Nord. E va anche ricordato che, dalla fine degli anni '60 in poi, per gran parte del ceto politico della Prima Repubblica e dell'establishment economico e finanziario del Nord la “non soluzione” della questione meridionale diventò molto più conveniente della “soluzione”. Facile intuirne le ragioni. Punto. E a capo.

Oggi emerge in tutta evidenza che la cassetta degli attrezzi maneggiata dai cultori e dai depositari del meridionalismo classico va aggiornata. A partire dalla presa d'atto che l'interesse per il Mezzogiorno, il peso specifico di questa area del Paese e la conseguente attenzione verso di essa sono notevolmente diminuiti nei primi due decenni di questo secolo non solo per una cattiva e soggettiva volontà politica delle classi dirigenti che si sono succedute dopo il crollo della prima Repubblica e la fine dell'intervento straordinario. Certo, anche per questo: basti pensare ai guasti prodotti nel Sud dalla ventennale egemonia, prima di tutto culturale, dispiegata dal blocco politico-sociale a trazione nordista che ha governato il Paese. Ma non solo. Il fatto è che la caduta di attenzione e di interesse verso il Sud, al di là delle sensibilità politiche e delle volontà soggettive, affonda le radici in una serie di ragioni storiche o, meglio, rotture storiche che spesso la retorica neo-meridionalista e, per altro canto, la vulgata neo-borbonica ignorano o superficialmente sorvolano. Rotture e processi che hanno mutato gli scenari in cui il Sud è collocato e aperto prospettive di sviluppo diverse rispetto al secolo scorso. Per questo la cassetta degli attrezzi del meridionalismo va adeguata ai nostri tempi.

Basti pensare a ciò che ha significato la caduta del muro di Berlino e la fine della minaccia del comunismo sovietico. Fino ad allora, il Mezzogiorno d'Italia era considerato strategicamente rilevante dal punto di vista geografico e militare per l'intero Occidente capitalistico e per l'Alleanza atlantica: la sua tenuta complessiva rappresentava una priorità non solo italiana, ma internazionale. Con la fine della guerra fredda quella rilevanza geo-strategica si è esaurita, e con essa tutto ciò che aveva comportato nelle politiche pubbliche e statali. Non basta. La contemporanea esplosione dell'economia globalizzata ha rimosso d'un colpo tre tratti distintivi che avevano sollecitato l'attenzione e l'interesse per il Sud negli ultimi 40 anni del secolo scorso. Primo: il Mezzogiorno come grande e appetibile mercato di consumi dei beni e dei servizi prodotti dalle industrie del Nord. Secondo: il Mezzogiorno come principale serbatoio da cui attingere manodopera, considerata l'assenza dei flussi migratori internazionali. Terzo: il Mezzogiorno come area dove insediare segmenti dell'industria pesante e di approvvigionamento energetico (spesso molto inquinante) al servizio dell'industria manifatturiera del Nord. La globalizzazione ha spazzato via queste tre “attrazioni” di interesse e attenzione: mercato di consumi, mercato del lavoro e industria pesante sono diventati molto più appetibili altrove, al di fuori dei confini dell'Italia e, in gran parte, anche dell'Europa tradizionalmente intesa. Finanche come mercato elettorale e serbatoio di consensi il Mezzogiorno rischia di perdere attrazione, considerata la progressiva desertificazione demografica di cui parla Svimez.

Ecco perché volgere lo sguardo all'indietro, vagheggiare un ritorno ai vecchi strumenti e alle vecchie politiche pubbliche nel Mezzogiorno (ministero ad hoc, cabine di regia, interventi straordinari, finanziamenti a pioggia, strategie e visioni unitarie, piani dirigistici, programmazioni quinquennali e decennali) significa sbagliare lettura, analisi e ricerca delle soluzioni. Significa invocare una ripresa di attenzione e di interesse che non potrà più esserci. Almeno nelle forme e negli interventi fin qui conosciuti.

Oggi occorre rovesciare il tradizionale paradigma. È il Sud, anzi i Sud, con le proprie forze e le proprie scelte, che devono essere capaci di sollecitare interesse, importanza e attrazione. E dimostrare di essere opportunità. Innanzitutto, valorizzando le immense risorse territoriali, con lo spirito di iniziativa e di inventiva dei suoi abitanti, con gli spiriti animali regolati e controllati dalle buone pratiche amministrative. Su questo terreno va poi sfidato lo Stato centrale a intervenire. È su questo terreno che bisogna rivendicare con forza e con battaglie, anche dure, sui territori meridionali pari opportunità e pari diritti di cittadinanza garantiti altrove. Trasporti, mobilità, servizi, formazione. Interventi selettivi su progetti fattibili, con obiettivi credibili e finanziamenti certi. E con i responsabili degli eventuali fallimenti ben individuabili.

C'è chi paventa il rischio di frammentazione e il pericolo di rotte di collisione territoriali per l’assenza di una strategia unitaria. Può darsi. Ma le dure repliche della storia dopo oltre un secolo di interventi pubblici, con risultati deludenti, impongono il cambio di strada. Non è più tempo di stare fermi, crogiolarsi nella rassegnazione, continuare a lamentarsi, invocare nel deserto l'attenzione, vivere nell'attesa messianica di qualcuno o di qualcosa che verrà a salvarci, sperare in maxi-vertici e mega-interventi decisi in una affollata sala verde di Palazzo Chigi. Non scherziamo. Nei mutati scenari economici, militari e politici nessuno avrà veramente interesse a salvarci “gratuitamente”. Imparare a fare da sé, anche se non da soli, è ormai un obbligo, oltre che impresa possibile. La Puglia con il Salento, la Basilicata, alcune aree della Campania confermano che il “nonsipuotismo” è una malattia da cui si può guarire. E che l'attrazione di interesse dipende soprattutto dalle proprie capacità. Non solo nel turismo. Questo Sud che ha cominciato a mettersi in cammino sta acquisendo anche la consapevolezza che il modello di sviluppo non può essere a una sola dimensione, ma polivalente e integrato, per non correre il rischio di rimanere in balìa delle mode e delle attenzioni passeggere. Il cammino è appena cominciato. E il successo dipende soprattutto da noi, da ognuno di noi.
 
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