Il caso Bari e la chat che scotta/ La ritirata della politica in affanno sulla giustizia

Alfonso Pisicchio e Michele Emiliano
Alfonso Pisicchio e Michele Emiliano
di Rosario TORNESELLO
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Sabato 20 Aprile 2024, 12:10 - Ultimo aggiornamento: 17:39

L’emergenza etica nella lotta politica scavalca la bufera giudiziaria e supera la retorica della questione morale. Bari si avvia a essere un caleidoscopio irripetibile di eventi, personaggi e intrecci di relazioni, insieme affascinante e stupefacente nella sua variegata complessità, attraverso il quale “contemplare” – se è lecito almeno il termine – gli ultimi bagliori di un’epoca ormai al tramonto. È la politica la prima vera sconfitta della primavera pugliese che fu, ma non solo di quella. Lo siamo anche noi, con essa: per lo più spettatori – tutt’altro che inconsapevoli e perciò non proprio incolpevoli – della rappresentazione tragica e farsesca di un sistema degenerato.

La storia recente non ha insegnato nulla. Della Tangentopoli destinata agli archivi giudiziari questa sequela di inchieste non ha né lo spessore dei personaggi né il livello della posta in gioco.

Né tantomeno ha, in fondo, le motivazioni ideologiche poste a paravento del malaffare. Qui corruttele e ruberie, se saranno cristallizzate in un accertamento processuale chiaro e irrevocabile, non hanno neppure l’appiglio dell’interesse superiore, come invece fu il finanziamento (senza alcun dubbio illecito) del sistema politico come struttura democratica. Qui è (sarebbe) solo vile storia di bassa cucina, di potere per il potere. Potere personale, insomma. Il peggiore.

Cosa non ci ha insegnato Mani pulite, sempre che l’ondata pugliese di inchieste in corso abbia una vaga somiglianza – visti i distinguo di cui sopra – con quella stagione? Intanto non abbiamo appreso l’uso prudente di non sparare sentenze prima dei verdetti pronunciati nelle aule di giustizia. Avvertimento mai vano, a giudicare dalle conseguenze invocate o innescate dalle inchieste: prima su tutte – almeno in Puglia – la richiesta di scioglimento dell’assemblea elettiva del Comune capoluogo di regione. Resta sempre valido il principio – e precetto costituzionale – per cui nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva (con buona pace di quanti credono che al mondo esistano solo colpevoli non ancora scoperti e incastrati). 

Ancora. Non abbiamo appreso, ammesso fosse opportuno aspettare Tangentopoli per capire l’ovvio, che la politica deve (dovrebbe) avere canoni e criteri differenti rispetto alla giustizia: nel suo agire, fare scelte e selezionare la classe dirigente, cui affidare le sorti collettive. Non perché la politica debba distinguersi dalla giustizia quanto a rispetto della legge, ma perché a essa – pur volendola considerare cinicamente per quello che in fondo è, «sangue e merda» (cit. Formica) – è richiesto comunque qualcosa in più della semplice adesione formale al dettato normativo. Visione, progettualità, certo; ma anche sensibilità, attenzione, rispetto e rigore. Il punto è esattamente questo. E a Bari punti di picco o di flesso ne sono stati toccati diversi, in rapida sequenza e in pochissimi giorni.

Amministratori e dirigenti inquisiti e tuttavia rimasti “eroicamente” al proprio posto nonostante la gravità delle accuse (diciamo fino a che arresto o condanna non li separi dai pubblici uffici). Alcuni dimissionari o dimissionati dopo il rinvio a giudizio. Altri spinti a più miti consigli dal clima finalmente cambiato e dal faro accecante puntato (tardivamente?) da magistratura e opinione pubblica su enti e società partecipate. E uno, infine, precipitevolissimevolmente uscito di scena poche ore prima dell’annunciato arresto. Ed è l’ultimo caso, quello che ora tiene banco e trascina nella polemica ancora una volta capoluogo e Regione. L’imbeccata al dirigente inquisito è partita davvero dal governatore pugliese? E a quest’ultimo, invece, chi ha spifferato tutto dell’inchiesta e, in particolare, dell’ondata di catture in arrivo? E ancora: era giusto che il presidente avvisasse l’interessato, considerato il rapporto fiduciario dell’incarico ma anche il suo ruolo (mai formalmente dismesso) di magistrato? Domande necessarie e legittime. Su alcune saranno le indagini a fare chiarezza, su altre il dibattito è aperto.

Ma al di là delle opinioni divergenti e degli intimi convincimenti di ciascuno, quel che il caso Bari rende fin troppo evidente è lo sbandamento della politica davanti all’incalzare dell’azione della giustizia, che prima bellamente ignora e ora vorticosamente insegue, fino al paradosso di arrivare ad anticiparne “miracolosamente” le mosse, creando ulteriore scompiglio. Con un appiattimento che dice molto del livello infimo in cui da tempo si dimena quella che dovrebbe essere un’arte nobile, comunque preposta al governo dei destini collettivi e, per questa via, individuali. E con un’incapacità di aprire prospettive di dialogo e fiducia, primo collante nel rapporto tra amministrati e amministratori, che rende pressoché superfluo e vano qualsiasi programma elettorale per gli appuntamenti a immediata scadenza e per quelli a venire. Se la politica non sarà capace di rigenerarsi dal profondo e dal basso, preferendo al contrario continuare a dimenarsi nel recinto del leaderismo affaristico e del populismo civico/cinico senza valori, con i mezzi e gli strumenti di cui è capace, tanto noti quanto consunti, nulla potrà (re)suscitare entusiasmi e infondere motivato ottimismo. Non occorre aspettare ulteriori avvisi di garanzia, né sinistre (non è un gioco di parole) avvisaglie, per capire che occorre cambiare strada. E rapidamente, anche. Con molto più sangue. Molta più passione. E molto meno “materiale umano di scarto”, per così dire.
 

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