Lo scrittore Lagioia: «Dalla Ferocia al G7, la mia Puglia cambiata. Ma ho paura del turistificio»

Da venerdì 12 a Bari il tour teatrale tratto dal romanzo Premio Strega pubblicato dieci anni fa. La società violenta, la nouvelle vague letteraria, il Sud, il turismo e il G7: parla lo scrittore

Lo scrittore Lagioia: «Dalla Ferocia al G7, la mia Puglia cambiata. Ma ho paura del turistificio»
di ​Vincenzo MARUCCIO
6 Minuti di Lettura
Giovedì 11 Gennaio 2024, 10:27 - Ultimo aggiornamento: 12 Gennaio, 21:25

Nicola Lagioia, “La Ferocia” sembra scritto oggi: ascesa e caduta di un imprenditore edile self made man che a tutti i costi insegue la ricchezza, perfino al prezzo della morte tragica della figlia. In questi giorni lo spettacolo tratto dal romanzo premio Strega andrà in scena al Kismet di Bari e poi a febbraio a Lecce e in altri teatri pugliesi: com’è stato ritrovare questa storia dopo aver vissuto esperienze personali diverse come la direzione del Salone del Libro di Torino e la giuria della Mostra di Venezia?
«Sono passati dieci anni, ma è vero che potrebbe essere stato scritto oggi. Quel clima di prevaricazione, di violenza esplosa o di violenza a stento trattenuta è una tensione nella società che negli ultimi anni è venuta fuori anche in modo più forte e palpabile. A livello individuale e a livello sociale, in Puglia come nel resto del Paese. Mi sono immerso in quelle atmosfere per anni e sono molto affezionato al libro non solo perché ho vinto lo Strega ma perché, e lo ricordo benissimo, è stato un lavoro di grande dedizione. Lo spettacolo teatrale della compagnia VicoQuartoMazzini l’ha fatto proprio come era giusto che fosse. L’ho visto in anteprima ed è come se, per la prima volta, avessi letto la “Ferocia” scritta da un altro. Ho conosciuto ancora meglio il romanzo. Mi ero allontanato da quelle atmosfere e ritrovarle è stato emozionante».


La bramosia e la vanità del potere, filo conduttore della storia, ci rende tutti uguali e forse anche più fragili?
«Il potere ci accomuna ed è vero che, nello stesso tempo, ci rende più fragili. Rendendoci fragili ci rende più violenti. Il protagonista, Vittorio Salvemini, si serve di ogni mezzo, dal ricatto alla corruzione. Il potere in sè non è qualcosa di brutto, dipende da come lo si esercita. Ciascuno è responsabile del potere che possiede, ad esempio, nel rapporto con le persone più vicine. Andrebbe utilizzato per fini nobili, ma quando diventa semplice volontà di potenza cominciano i guai e le tragedie. Chi è vittima del potere e ne è consumato e ubriacato può distruggere gli altri almeno quanto rischia di distruggere se stesso».


È una storia che potrebbe essere ambientata in ogni città italiana e l’adattamento teatrale ne sottolinea l’universalità...
«Il libro riguarda Bari perché personaggi e atmosfere, fortemente riconoscibili, sono molto baresi. L’elemento locale, con le sue sfumature, è molto forte. Al tempo stesso, come sono molto siciliani i personaggi dei “Vicerè” di Federico De Roberto o come sono molto napoletani i personaggi della “Pelle” di Curzio Malaparte, ciò non toglie che la storia possa avere un valore universale. È il motivo per cui ci appassioniamo al principe di Danimarca o alle ragazze di Alice Unro. Le due cose possono stare bene insieme. Bari ha un’identità, ma è anche Italia».


Il Sud rischia di diventare una trappola quando è legato all’obbligo del riscatto che crea ansie e infelicità?
«Il Sud è un grande ispiratore di storie e mi viene in mente il cinema italiano che è stato molto ispirato da Roma in giù. Come, ad esempio, sarebbe impossibile immaginare la letteratura italiana senza la Sicilia. Vale anche per la letteratura americana che non può fare a meno di un William Faulkner, un meridionalista verrebbe da dire, o per quella francese che non può fare a meno del Sud di Albert Camus. Non credo che il Sud sia una trappola più di quanto possa essere una salvezza o uno strumento di rivelazione». 


Nessun pericolo nel meridionalismo?
«Non lo vedo. Io sto bene al Sud. Si respira un’aria di libertà e certe volte di grande forza e intensità. Qui c’è una predisposizione alla socialità che è misura della civiltà di un popolo e che non è detto si ritrovi altrove».


Con sempre meno intellettuali, però. Perché sono scomparsi?
«Non credo siano scomparsi, io li vedo all’opera. Dire che sono scomparsi è una forma retorica per evitare di tirarsi in ballo.

Un po’ come il romanzo: si parla della sua scomparsa da 100, 150 anni e, invece, sta sempre lì». 


Con Mario Desiati e con Alessandro Leogrande avete cambiato lo sguardo sulla Puglia ancor più di alcuni autori di bestseller. C’è un motivo generazionale o qualcosa di più?
«Ci siamo conosciuti tutti a Roma che ha questa grande capacità di far incontrare spesso le persone che vengono da Sud e insieme abbiamo cominciato a raccontare la nostra terra in modo non folkloristico e andando fuori anche dai confini nazionali. Ci ha fatti incontrare Goffredo Fofi che con le sue riviste ha creato luoghi dove poter scambiare esperienze. Ma forse c’è una cosa che ci ha accomuna».


Quale?
«Il fatto che eravamo ragazzini quando a Bari è arrivata la nave Vlora con 20mila albanesi a bordo. Quello fu il ventunesimo secolo che arrivava in Puglia con circa dieci anni di anticipo rispetto al resto d’Italia. Abbiamo capito e ne avevamo la dimostrazione tangibile che il Novecento con il mondo diviso in due blocchi era finito. Gli orizzonti che si spalancano davanti sarebbero completamente diversi rispetto a quelli che erano abituati a vedere i nostri genitori e i nostri nonni. L’arrivo della Vlora è stato uno spartiacque e, forse sì, è da lì che abbiamo cominciato a scrivere».


La sua generazione poteva fare qualcosa di più?
«La mia generazione, in realtà, una cosa l’ha fatta: abbiamo contributo a far uscire la Puglia da un secolare cono d’ombra. Se abbiamo avuto un piccolo merito è stato questo di averla aiutata in questo processo. Vivevamo in una terra poco conosciuta e poco rappresentata e ora in Puglia, quest’anno, ci faranno addirittura il G7. Sarebbe stato inimmaginabile fino a qualche anno fa. Il problema è che cosa la Puglia rischia di diventare adesso». 


La Primavera pugliese è stata un’illusione?
«Prima dicevo di temere che la Primavera pugliese non diventasse mai un’estate. Adesso ho paura che la Primavera pugliese sia diventata un’estate troppo torrida e infuocata. La Puglia ha fatto innegabili passi avanti negli ultimi 20 anni, ma ora si trova davanti a un bivio». 


Tutti vogliono acquistare una masseria o venirci per le vacanze. Non condivide?
«Uno potrebbe dire: dobbiamo proprio scegliere tra queste due strade? Una è la Puglia trasformata in turistificio. Il turismo è sicuramente importante, ma attenzione a non estendere a tutta la regione quello che viene chiamato l’effetto-Gallipoli: il 30 per cento di presenze in meno nell’ultimo anno è un segnale importante che spero sia stato colto e che dimostra come non bisogna spennare i turisti perché altrimenti non ci tornano più. Bisogna creare una cultura vera del turismo, ma anche con questa seconda strada ho paura della trasformazione in Pugliashire come luogo oleografico dove i ricchi, americani o cinesi che siano, vengano a fare le vacanze. Una falsa cartolina e sarebbe un problema».


Né l’una né l’altra strada?
«Vorrei che la Puglia fosse un laboratorio culturale, politico, sociale ed economico. A questo dovremmo aspirare. Il turismo aiuta, ma eviterei che diventi la misura di tutto perché o non durerà per sempre oppure rischiamo di diventare come il Chiantishire. Cioè, un posto bello, ma fondamentalmente una macchina celibe che alimenta se stessa. E che, invece, non produce massa critica, a tutti i livelli, come mi aspetterei da una regione importante e bella come la nostra».


C’è sempre molto da “riportare a casa”, come s’intitolava un suo romanzo. Dopo “La città dei vivi”, dobbiamo aspettarci un ritorno ad un’ambientazione pugliese?
«Sì, c’è sempre tantissimo da riportare a casa, ma dei libri che sto scrivendo preferisco parlarne quando li ho finiti. Un po’ per scaramanzia e un po’ perché sono come le pellicole delle vecchie macchine fotografiche che non vanno esposte alla luce fino a quando non si possono sviluppare. Aspettiamo».
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