Sabrina vuole andare in convento, i giudici dicono no

Cosima e sabrina
Cosima e sabrina
di Lino CAMPICELLI
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Sabato 9 Aprile 2016, 06:45 - Ultimo aggiornamento: 17:50

Niente convento per Sabrina Misseri nè casa-famiglia per Cosima Serrano, le due avetranesi condannate all’er-
gastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte d’assise d’appello di Taranto ha respinto le istanze di scarcerazione presentate dalla difesa delle due imputate che, in alternativa, chiedevano di poter essere ristrette ai domiciliari in due strutture religiose dell’Italia centro-settentrionale.

L’ufficialità al “no” è giunta ieri attraverso l’ordinanza firmata dalla Corte che nell’estate dell’anno scorso, come è noto, ha confermato il carcere a vita inflitto in primo grado per il sequestro e l’uccisione della piccola Sarah, avvenuti nell’agosto del 2010. In una “riconversione” dello stato detentivo le due donne hanno sperato per lunghi giorni.
Attraverso articolate memorie gli avvocati Franco Coppi, Nicola Marseglia, Francesco De Jaco e Luigi Rella avevano spiegato le ragioni dell’istanza. E avevano fatto leva su due tipologie di motivi.
Da un lato quella prettamente tecnico-procedurale. La lunga detenzione già sofferta (Sabrina è in carcere dall’ottobre 2010, mamma Cosima dal successivo maggio) in aggiunta alla ipotizzata insussistenza di esigenze cautelari, che imponevano (e impongono) l’adozione del carcere come unica misura possibile, costituirebbe materia incandescente se unita a un terzo elemento: l’assenza del deposito della motivazione della sentenza di secondo grado (è prevista entro il mese).

Un’assenza, avevano evidenziato i legali delle due donne, che starebbe alterando e dilatando quei termini di fase che il codice di rito pone nell’ordinamento processuale come paletti ineludibili. D’altra parte, la materia di durata delle misure cautelari ha rilievo costituzionale (comma 5 dell’articolo 13).
Dal punto di vista meramente tecnico, i legali delle due donne avevano sostanzialmente spiegato, dal loro osservatorio, che non esiste allo stato “quel principio di adeguatezza” che impone come categorica la sola misura del carcere. E ciò perché non vi sarebbe possibilità alcuna che le imputate possano inquinare le prove, fuggire o reiterare il medesimo reato.

Il secondo, differente motivo che aveva indotto la difesa a chiedere la sostituzione della misura detentiva risiede-
va nel desiderio di Sabrina, e di Cosima Serrano, di rendersi utili agli altri. Di operare concretamente in favore di
progetti e persone che ne avessero bisogno. Sul punto, i legali avevano individuato strutture disponibili ad accogliere le due imputate: entrambe gestite da organismi religiosi. Si trattava di organismi che, fra conventi o casa-famiglia, potevano fare al caso in questione.

Di tutt’altro avviso, però, era stato il sostituto procuratore generale. La dottoressa Antonella Montanaro, che ha sostenuto l’accusa nel processo di secondo grado, aveva contestato la ipotizzata insussistenza delle esigenze cautelari messa in rilievo dalla difesa, sostenendo peraltro la preminenza del principio di adeguatezza.
Le esigenze cautelari sussistono, secondo la pubblica accusa, e l’unica misura che può operare da garante è e resta quella della detenzione in carcere.
Peraltro, secondo il pg, non vi è possibilità di indulgenza al cospetto di posizioni così granitiche mostrate dalle due donne. Posizioni che non fanno immaginare, neanche lontanamente, parvenze di pentimento. Questioni e posizioni differenti sono state proposte oralmente, nei giorni scorsi, in camera di consiglio, allorchè la Corte ha incamerato le richieste della difesa da un lato, e il diniego dell’accusa a soluzioni diverse dal carcere dall’altro.
Ieri, poi, la decisione: impera il principio di proporzionalità.
E cioè unica misura irrogabile resta il carcere per un fatto così graveche, per tutta una serie di valutazioni, non può favorire soluzioni diverse.

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