Quella voglia di restare e di sfidare la paura del terremoto

di Alessandro CAMPI
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Giovedì 3 Novembre 2016, 20:01
Al terremoto non ci si abitua mai. Chi lo ha sentito anche una sola volta, forte e intenso, si porta dietro per anni, forse per sempre, quella sensazione di tremore paralizzante che ti prende quando cominci ad avvertire le prime scosse. Vorresti scappare e trovare riparo, ma ti senti sulle prime imbambolato e quasi ipnotizzato dal movimento e dalle vibrazioni che percepisci intorno a te, dentro di te.

Dopo una simile esperienza, che è persino difficile da descrivere, ti rimane una paura latente, un senso di allerta permanente, che diventa logoramento nervoso, stato ansioso, quando le scosse, vivendo una zona classificata convenzionalmente come sismica e ad alta rischio, si susseguono nel tempo, improvvise, talvolta occasionali, magari appena percepite, magari soltanto immaginate o temute. L’Umbria, in particolare la zona appenninica ad est del Tevere, ha sempre tremato nel corso dei secoli, facendo spesso morti e sempre distruzioni.

Solo negli ultimi trent’anni di terremoti importanti ce ne sono stati almeno una decina, alcuni persino dimenticati da quelli che oggi ne tengono la contabilità sui giornali. Non ci si abitua, nella vita di una sola persona, ad eventi del genere, per quanto ricorrenti, ma si finisce per conviverci a livello di collettività, nella convinzione che l’ultima parola, per quanto la natura possa essere potente e minacciosa, tocca sempre all’uomo. L’uomo costruisce, la natura distrugge, l’uomo ricostruisce: in fondo si è sempre fatto così.
Molti in queste ore non si spiegano la caparbietà con la quale vecchi e giovani, pur avendo perso tutto, dalla casa al lavoro, si ostinano a voler restare a vivere in zone delle quali si conosce da sempre l’instabilità. Fanno quasi tenerezza, quando non suonano orgogliosamente patetici, quei volti di pietra, quegli accenti montanari e schietti, quegli sguardi di donna (madri o nonne), che ti spiegano di voler ricominciare esattamente come prima, di voler ricostruire tutto com’era un tempo, a dispetto di ogni paura. Ma non sarebbe meglio andarsene – oggi che se ne ha la possibilità e non si è più condannati dal destino a vivere e morire dove si è nati – in luoghi più tranquilli e meno inospitali? Perché rimettere in piedi Norcia, o Preci, o Visso, o gli altri borghi rasi al suolo o gravemente colpiti dal sisma, sapendo che forse tra dieci o quarant’anni le loro mura, case e chiese potranno cadere di nuovo?

Il problema è che questa parte l’Italia, parlo in particolare dell’Umbria, dove vivo e che meglio conosco, è qualcosa di unico e irripetibile. Lo è dal punto di vista storico e paesaggistico, ma anche come stile di vita, rimasto semplice, vero ed essenziale in un mondo che inclina sempre più all’artifizio e alla falsità. Lo è per aver dato i natali ai santi e ai mistici che non hanno fondato soltanto l’identità profonda dell’occidente cristiano, ma inciso in modo determinante – attraverso il monachesimo – sulla nostra cultura materiale, avendoci insegnato come conservare e trattare gli alimenti, come curarci con le erbe, come trasmettere il sapere ai posteri, come rendere fertili i terreni e sviluppare le colture. Lo è soprattutto per tutto ciò che da queste parti si è accumulato dal punto di vista culturale e artistico nel corso dei secoli. C’è una magia e bellezza dei luoghi, in senso fisico e spirituale, che è molto più forte di ogni possibile asperità o pericolo. Castelluccio di Norcia, oggi largamente distrutta, è un cerchio di case graziosamente abbarbicate su un colle al termine di un maestoso altopiano sul quale incombe la sagoma del monte Vettore. Ha poco più di cento abitanti, che certo potrebbero essere comodamente sistemati altrove. Ma bisognerebbe aver visto Castelluccio almeno una volta, all’epoca in cui il sottostante Pian Grande esplode di colori durante la fioritura estiva, per capire perché da simili presidi gli uomini, per quante avversità debbano sopportare, non se ne andranno mai. Ciò che è distrutto, rinascerà, deve rinascere, non per caparbietà e fierezza, ma perché la civiltà degli uomini si regge sulla bellezza e sull’armonia che essi stessi hanno saputo inventare. L’alternativa è la barbarie o la regressione allo stato di natura.

Quei borghi, quelle frazioni che oggi per saggezza travestita da modernità qualcuno consiglia di abbandonare per sempre, sono poi esattamente i posti dove si è forgiato, proprio grazie alle difficoltà che le generazioni hanno dovuto affrontare e superare, quella particolare forma del carattere popolare che rende ancora l’Italia una realtà degna d’essere vissuta: fatta di dedizione al lavoro, senso della comunità, attaccamento alle cose elementari e fondamentali, rispetto per le tradizioni e il passato, decoro e dignità personale, ostinazione nel perseguire i propri obiettivi, riservatezza e serietà. Modi d’essere e di comportarsi che probabilmente si perderebbero venendo meno il legame con il territorio che ha tenuto a battesimo questo insostituibile tipo umano.

Quest’ultimo terremoto – violentissimo come non se ne registravano da tempo – è stato una tragedia immensa. Ha risparmiato le vite umane (e non si dica che in questo non c’è stato un intervento protettivo celeste), ma ha fatto, come si è visto, danni materiali gravissimi al patrimonio edilizio e artistico-culturale. Ma sembra sia anche servito, ad un Paese sempre più smarrito, egoista e distratto come l’Italia sembra essere diventata, per interrogarsi su di sé e sulla sua natura profonda, per chiedersi, finalmente senza retorica e senza malintesi politici, quali siano le sue radici reali e la sua memoria autentica. Gente che non sentiva messa da anni si è commossa e forse ha pianto vedendo la basilica di San Benedetto ridotta in polvere. Si è capito, per banale che possa sembrare, che dietro le prelibatezze culinarie che può vantare la nostra gastronomia (dai formaggi ai salumi che sono una delle specialità dell’appennino umbro-marchigiano) c’è, prima del marketing e del packaging, il lavoro indefesso, duro, silenzioso di gente semplice e caparbia, gente abituata alla fatica e ai sacrifici, che ancora bada agli armenti come si faceva nel passato e che da essi trae sussistenza e un dignitoso benessere. E anche l’accoglienza turistica di qualità, il permanere di un paesaggio naturale in gran parte integro, le cose che tanto piacciono ai metropolitani che vengono in Umbria per rigenerarsi durante le vacanze, si è capito che non sono un dono gratuito della natura o un frutto del caso, ma il risultato anch’esso di un impegno umano basato sulla felice combinazione di creatività individuale e buona volontà collettiva.

Per chi conosca queste terre e la loro storia resta, in un tale momento di dolore, una certezza: se è vero che i terremoti continueranno, e mai ci si farà il callo, è anche vero che tutto tornerà come prima. E che l’eterna sfida con la natura la vinceranno rispettosamente gli uomini.
 
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