Tra passato e futuro, l'appartenenza a questa terra

di Antonio ERRICO
4 Minuti di Lettura
Lunedì 28 Settembre 2020, 10:02
Nelle ultime sei righe de “L’Artefice”, Jorge Luis Borges dice di un uomo che si propone il compito di disegnare il mondo. “Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”. Si appartiene, dunque. Sempre. Comunque. Inevitabilmente si appartiene: a qualcosa, a qualcuno.

Si appartiene a una terra, alla gente di quella terra, alla sua Storia, alle sue storie, al suo passato, al suo presente. Si appartiene alla memoria di quella terra: ai simboli, ai valori, ai linguaggi, ai paesaggi, alle tristezze, alle euforie, alle felicità e ai dolori di quella terra. 

Si appartiene al suo futuro anche. Forse soprattutto al suo futuro. Si appartiene alle sue realtà e alle sue fantasie, alle passioni, alle ragioni, ai sentimenti, forse anche alle leggende, ai miti, ai riti. Spesso si appartiene consapevolmente. Qualche volta può accadere che l’appartenenza si esprima in maniera inconsapevole. Comunque si appartiene. Per esempio. Chiunque abiti il Salento, consapevolmente o inconsapevolmente appartiene ai misteri delle grotte di Badisco, alla desolazione dei ruderi dell’abbazia di Càsole, alle tessere colorate con le quali mille e più anni fa il monaco Pantaleone ha costruito il suo mosaico favoloso, ai fantasmi inventati che nottetempo ritornano nelle torri di scolta a strapiombo sul mare, a quegli altri fantasmi imprigionati nella pietra delle facciate di sontuose cattedrali barocche. Chiunque abiti il Salento appartiene all’universo poetico generato da Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Girolamo Comi, Antonio Verri, Salvatore Toma, Nicola De Donno, Vittore Fiore. Appartiene alla narrazione tessuta da Fernando Manno, Giovanni Bernardini, Luigi Corvaglia, Maria Corti, Rina Durante, Aldo De Iaco. Qualche altro.

A questo apparteniamo; questo ci appartiene. Non importa se consapevolmente o inconsapevolmente. Ci appartiene. Apparteniamo. Semplicemente. Anche se il tempo e gli accadimenti e le forme del progresso hanno mutato la fisionomia di questa terra, a tutto questo apparteniamo e tutto questo ci appartiene.

Per esempio. Ci appartiene la sapienza di Antonio De Ferraris detto Galateo, la sua stupefatta razionalità, la levità fantasiosa di Giuseppe Desa, il Frate Asino, il Santo dei voli; apparteniamo agli affreschi desolati delle cripte bizantine, alle edicole votive che si manifestano improvvise dentro i vichi dei centri storici, ai crocicchi delle strade di campagna, ai volti dei vecchi sul limitare delle case, a tutte le razze che sono passate da queste contrade. Ci appartengono i volti atterriti dei contadini quando la grandine devastava i vigneti. Siamo dentro i vagoni gonfi di valigie di cartone legate con lo spago che andavano verso Nord.

Qualche volta non ci facciamo neanche caso, eppure apparteniamo alla vertigine di certi campanili di Grecìa, agli enigmi dei menhir svettanti e solitari; ci appartengono i canti dei carrettieri che ritornavano dalle cave, quelli delle donne che si alzavano dai campi di tabacco. Anche se abbiamo dimenticato, perché il tempo porta anche dimenticanza, ci appartiene la leggenda di Enea che sbarca da queste parti.

Ci appartiene il sibilo lungo. Ecco cos’è il sibilo lungo: lo raccontò una volta Antonio Verri.
Scrisse: “Cambia, cambierà, di molto il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi: è cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due tre generazioni. E cambieranno naturalmente anche abitudini, modi di lavoro, rapporti; ecco, quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento”.

Trentacinque anni fa, Verri aveva visto lontano; aveva capito molto, quasi tutto, forse tutto. In trentacinque anni è cambiato molto, quasi tutto, forse tutto.

Però forse resta il dialogo con la terra, che si realizza attraverso l’attribuzione di significati sempre nuovi al suo lessico essenziale.

Quel sibilo lungo della terra, quel grosso respiro che per Antonio Verri rappresenta l’espansione di un fiat originario, di un’eco di vibrazione ancestrale, si ripropone continuamente come una irrinunciabile condizione di senso, il lievito di un’idea, come un sentimento del tempo in una dimensione di continuità e di coesione. Forse rinnova e rinvigorisce il vincolo che stringe l’uomo alla sua terra e che in qualche modo ne determina la visione del mondo e dell’esistenza, che in qualche modo ne conforma l’esperienza di essere qui, ora, così, in un equilibrio tra presente e passato, storia e memoria, concretezza e figurazione immaginaria.

Apparteniamo a questa terra, dunque. All’immagine del delfino che ha in bocca la mezzaluna, al morso della tarantola, all’assedio dei turchi. Ci appartiene questa terra liminare, confinante con il mare, confusa con il mare. Ci appartiene un pensiero che “depensa”, come diceva Carmelo Bene, che si spensiera fino a sublimarsi, per poi ricongiungersi alla concretezza delle storie, alla realtà di ogni giorno che sorge e che tramonta.

Questa terra ci appartiene. A questa apparteniamo. A questa terra rassomiglia il nostro volto, come nel racconto di Borges.



 
© RIPRODUZIONE RISERVATA