La riapertura dei cinema e la rigenerazione dello spirito: l'arte ha un linguaggio premuroso

La riapertura dei cinema e la rigenerazione dello spirito: l'arte ha un linguaggio premuroso
di Carmelo ZACCARIA
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Mercoledì 12 Maggio 2021, 05:00

La riapertura dei cinema, seppure limitata , ha galvanizzato il mondo dei cinefili. Si proiettano film a colazione, si riaprono gradualmente le sale, crescono i capannelli davanti alle locandine. Si torna ad assaporare l’atmosfera magica e sognante della sala buia, misteriosa, bisbigliante di mille volti che si cercano e si indovinano nell’eccitazione quasi mistica dello spettacolo che sta per cominciare. 

Se saremo migliori dopo la pandemia non sarà tanto per l’impulso saziante del materialismo di ritorno, quanto per la purificazione del nostro spirito rigenerato dal linguaggio premuroso dell’arte. L’ispirazione ad essere migliori ci arriverà proprio dai luoghi in cui cresce il desiderio, dove si svelano le sonorità compromesse dei nostri sentimenti, a lungo lesionate dalle crepe provocate dal virus. Il cinema contiene la grazia di trasformare le inquietudini della vita in un esercizio di rinascita spirituale: tuffandoci nel cinema ci tuffiamo in noi stessi, ci rappacifichiamo con la nostra coscienza, senza sentirci più esclusi, sfiduciati. Cerchiamo nel cinema non solo svago e piacere, ma anche conoscenza e comprensione di sé, proprio lo stesso “nutrimento sconosciuto” che cercava Kafka per difendersi da quel penoso spaesamento che lo induceva a considerare la realtà come un pesante macigno. Kafka sfuggiva al contagio del suo isolamento attraverso la frenesia della scrittura, sforzandosi di uscire dalla sua claustrofobia, dal suo sentirsi eternamente perduto, escluso dall’amore, pauroso del consorzio umano. I suoi racconti possono essere anche letti come surreali, quanto strazianti, sceneggiature di film. Spesso si abbandonava, come un fiume in piena, ad un flusso inesauribile di creatività primordiale senza cui il sangue non sarebbe fluito dentro le sue vene. Scrive Citati: “Afferrato alla scrivania come ad uno scoglio, ad un sepolcro, non poteva alzare la mano dal foglio, perché il racconto avrebbe perduto lo slancio, l’impeto, la magica fluidità del respiro che aveva tanto desiderato…” Per Kafka la vita senza letteratura non sarebbe durata un istante. Fellini, che fu un fine intellettuale, lo definì l’autore che meglio ha rappresentato la tragicità del quotidiano, e lo portò in scena, nella sua cinematografia, senza darlo mai a vedere, servendosene egli stesso per scavare nel proprio inconscio, alla spasmodica ricerca di se stesso. Così come Kafka era ossessionato dal Dio ebraico, arcigno e sconfinato, Fellini era inseguito dai sensi di colpa repressi dell’infanzia cattolica. 

Carica emotiva sorprendente

Nel ragazzino Karl del suo primo romanzo, Amerika, si coglie quel peregrinare smanioso, pinocchiesco, tipico del cinema muto, fatto di inciampi ridicoli e patetici che alimentavano il riso sbeffeggiante del monello di Chaplin, mentre va incontro al suo terribile destino senza farci caso, come uno sbadato. Non c’è niente di più felliniano in “Amerika” della descrizione della casa labirinto della maestosa, debordante Brunelda, prototipo della donna cannone tanto vezzeggiata dal regista, o dell’immensa scena del comizio notturno con lo strombazzante corteo di automobili ed una folla vociante accompagnata da trombe e rulli di tamburi, con la gente che si affaccia dai balconi infreddolita e incuriosita da tanto trambusto. Seduce poter immaginare i movimenti inquieti e vacillanti dei personaggi raccontati da Kafka, potendoli filmare in presa diretta, mentre si aggirano tra le stanze del tribunale del Processo o dentro le osterie nauseanti del Castello con il sottofondo onirico delle note musicali di Nino Rota......

Nel cinema e nella letteratura tutto assume una carica emotiva sorprendente, dove l’illusorio e l’enigmatico simboleggiano l’unica scappatoia dal senso di vuoto dell’esistenza, caotica e astiosa. Si deforma la realtà per renderla accettabile, intrigante, a volte, eccessiva, per alleggerirla del suo peso e renderla una culla accogliente. Nei film di Fellini così come nei racconti di Kafka i titoli di coda diventano superflui; tutto sfuma senza fine, per poter poi ricominciare. Entrambi sono stati adolescenti amanti del circo, e per questo ancorati saldamente al mondo dell’infanzia felice e sorridente, concentrati nell’eludere il dolore della crescita e l’assillo della maturità. Tutto in loro viene rappresentato come una smisurata stazione di transito da cui prendere avvio per scoprire nuovi mondi, per indagare nella profondità della nostra essenza, per far risaltare i battiti occultati del nostro cuore. Durante la ricognizione su noi stessi, potrebbe comparire una fiammata improvvisa, un’esplosione deflagrante, sotto forma di una sfera di metallo che, come in “Prova d’Orchestra”, frantuma l’oscuro muro dell’incoscienza, seminando fumo e detriti tra gli orchestrali. L’enorme squarcio sullo sfondo a suggellare un passato di disagio e di ripugnanza, una cicatrice lasciata a futura memoria come prova della fragilità dell’uomo di fronte ai suoi demoni. Nel fragore dell’impatto però, come d’incanto, i dubbi si dileguano, il nostro animo schiarisce, acquista fiducia, si risolleva, si redime. Il cinema, come sempre, ci guarisce e ci porta in salvo.
 

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