Il caso Report e i limiti del “populismo giornalistico”

Milena Gabanelli
Milena Gabanelli
di Alessandro CAMPI
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Giovedì 2 Novembre 2017, 16:37 - Ultimo aggiornamento: 18:55
Si fa un gran parlare, soprattutto sui social media, del grave e immeritato torto che la Rai avrebbe inflitto alla giornalista Milena Gabanelli, che l’altro ieri ha annunciato le sue dimissioni. Dopo aver lasciato nel novembre 2016 la conduzione di Report, nominata nel frattempo condirettore di Rainews 24, le sarebbe stata infine fatta un’offerta per lei professionalmente irricevibile.

Non la striscia quotidiana d’informazione che aveva proposto alla direzione generale, ma un fumoso progetto finalizzato alla gestione on line dei contenuti giornalistici della Rai. Come ha spiegato in un’intervista, qualcuno evidentemente temeva il suo ritorno in video, nelle vesti di commentatore o di giornalista investigativa, nell’imminenza di una complicata campagna elettorale. Non avendo ottenuto ciò che chiedeva, ha dunque polemicamente deciso di dimettersi dall’azienda.

Quello della Gabanelli non è il primo caso del genere. È capitato molte volte, nella lunga storia della Rai, che giornalisti d’indubbie capacità siano stati congedati, costretti ad andarsene o messi nella condizione di non fare nulla. E quasi sempre per ragioni legate ai cambi di congiuntura politica. La Rai, con la scusa di essere un servizio pubblico sottoposto a controllo parlamentare, è infatti una realtà nella quale è molto forte l’influenza dei partiti, in particolare di quelli governativi. Il che significa che le nomine e gli incarichi, così come le rimozioni, i trasferimenti e i mancati rinnovi contrattuali, dipendono in modo significativo dai legami che si hanno (o non si hanno più) con questi ultimi. Può non piacere, può essere considerato persino immorale, ma sono le regole del gioco che tutti conoscono (soprattutto dentro l’azienda) e che nessun sinora ha mai cambiato.

Ma il caso della Gabanelli sembrerebbe diverso. Parliamo di una giornalista che ha fama d’essere politicamente indipendente e che si è conquistata una vasta popolarità (e credibilità) con le inchieste condotte negli anni dal suo agguerrito team di cronisti, grazie ai quali ha denunciato scandali, ruberie, episodi di corruzioni, ogni possibile forma di malaffare politico e affaristico. Senza mai guardare in faccia nessuno e ricorrendo ad una tecnica narrativa, non solo avvincente sul piano televisivo, ma sempre estremamente obiettiva e rispettosa dei fatti.

Questo tuttavia è il mito. Ciò che sta spingendo non pochi in queste ore a presentare la Gabanelli come una sorta di martire della libertà d’informazione: un guardiano della democrazia che si è scelto di sacrificare (e di mettere a tacere) per paura delle notizie scomode che avrebbe continuato a scovare e raccontare. Bisognerebbe però chiedersi se questa visione un po’ leggendaria, da paladina della verità in lotta contro i mille mostri nascosti nelle pieghe della società italiana, corrisponde alla realtà. Bisognerebbe chiedersi, in particolare, quanto il suo modo d’investigare sia stato davvero libero da opzioni e simpatie d’ordine politico e quanto la sua tecnica di racconto, fondata sul sospetto più che sul dubbio, abbia davvero corrisposto ai canoni del giornalismo d’inchiesta correttamente inteso.

Un merito grandissimo e incontestabile la Gabanelli lo ha avuto. In anni in cui la politica è stata raccontata agli italiani attraverso lo strumento del talk show, ridotta dunque a spettacolo agonistico in cui tutti i partecipanti (conduttori, opinionisti e politici) si limitavano a recitare un copione prefissato a beneficio delle rispettive tifoserie, Report ha proposto un modulo che sembrava dimenticato o lasciato in appalto dalla Rai alla concorrenza: quello, appunto, di un giornalismo fatto non di opinioni, di quelle che durano lo spazio di una battuta, ma di fatti. Così come questi ultimi scaturiscono da indagini documentarie, ricerche d’archivio, appostamenti, interviste mai compiacenti, raccolte copiose di materiali, confronti tra testimonianze, ecc.

Ma alzino la mano – per venire al punto – coloro che avendo negli anni seguito (e persino apprezzato) Report non ne abbiano ricavato l’impressione di un programma certo coraggioso, ma anche abilmente insinuante (non basta raccontare fatti veri, conta anche come questi ultimi vengono assemblati e presentati, determinando suggestioni di cui lo spettatore passivo nemmeno s’accorge), basato su un giornalismo sostanzialmente indiziario e a tesi, costruito sull’idea di fondo che il potere in sé (e quello italiano in particolare) sia sostanzialmente marcio e opaco. Report – e questo ne spiega il successo non solo in termini di audience, ma in chiave politica – ha in parte cavalcato e in parte contribuito a costruire una lettura della società italiana (e della politica che la rappresenta) come intrinsecamente corrotta e da redimere attraverso una sorta di bagno purificatore. Un sentimento che nella percezione pubblica degli italiani si è radicato sempre più nel corso degli anni e che spiega anche il successo di un movimento politico sui generis come quello fondato e guidato da Beppe Grillo (non a caso grande estimatore della Gabanelli).

Non si tratta di negare, beninteso, il lato opaco del potere o l’affarismo che domina molte espressioni della vita pubblica nazionale (dall’economica alle stesse istituzioni politiche) e che Report ha spesso meritoriamente portato a galla: stiamo piuttosto parlando di un modulo retorico-narrativo, di una formula giornalistica, di una lettura (politica) della realtà italiana, che se resa assoluta, preminente o addirittura esclusiva – come è capitato con la Gabanelli – spiega poi perché quest’ultima tenda oggi a presentarsi, e venga presentata dai suoi estimatori, in una chiave, come dire?, vittimistico-oracolare, come se fosse stata tolta la parola a chi si era data come compito professionale di vigilare sulla democrazia italiana in nome e per conto dei cittadini.

Quando il giornalismo diventa magistero morale (un caso simile a quello della Gabanelli è oggi rappresentato, su un versante diverso, da Roberto Saviano) c’è ovviamente qualcosa che non quadra nel modo di porsi di questo stesso giornalismo all’interno del dibattito pubblico: ci si arroga un ruolo da censori e da coscienza collettiva che con l’informazione ha poco a che vedere. Ma in questo caso c’è anche da considerare un elemento molto più prosaico e personalistico: la percezione della propria insostituibilità che deriva, non tanto dal possedere delle indubbie qualità professionali, quanto dall’aver raggiunto un tale livello di esposizione pubblico-mediatica, per così tanti anni, da non riuscire più a immaginarsi lontani dai riflettori o senza una vasta platea alla quale rivolgersi. È una sindrome che colpisce spesso i professionisti del video: portati, in virtù del rapporto diretto ed esclusivo che intrattengono col pubblico e della credibilità-confidenza che da tale rapporto nasce, ad attribuirsi una funzione censoria, un ruolo da fustigatori del malaffare e da guardiani delle coscienze, che a loro non dovrebbe minimamente competere. Non è un caso d’altronde che il populismo politico, anche nel caso storico italiano, sia stato preceduto e in parte inventato (persino nello stile e nel linguaggio) dal populismo giornalistico-televisivo.

Tutto ciò per dire che anche la Gabanelli, col suo Report e il suo peculiare stile giornalistico, è stata politicamente tutta interna al ventennio caotico che va sotto il nome di Seconda Repubblica: ne è stata l’anima inquisitrice e non corruttibile dal potere, metà Savonarola, metà Madre Teresa. Così come sono stati narrativamente funzionali a questo ventennio i talk show con i loro presentatori-domatori sempre in cerca di una rissa da sedare e di un pubblico da eccitare. Viene dunque da chiedersi in conclusione se la rigenerazione virtuosa della politica italiana non vada preparata, e forse persino stimolata, anche attraverso l’invenzione o la sperimentazione di nuove formule giornalistico-informative. Non ci servono le risse, non ci servono i cronisti d’assalto: servirebbe un’informazione che analizzi, che spieghi e che sia soprattutto davvero lontano e indipendente dalla politica.
 
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