L'estate in cui l'Italia si ritrovò come popolo

di Stefano CRISTANTE
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Venerdì 11 Dicembre 2020, 12:03 - Ultimo aggiornamento: 12:36

Ora che anche Paolo Rossi ci ha lasciati pochi giorni dopo Maradona, sentiamo qualcosa di strano e di agitato dentro di noi. Colpisce la morte precoce di entrambi. Gli uomini di sessant'anni sono considerati dalla medicina ancora lontani dalla vecchiaia, e non è facile rassegnarsi al rapido logorio fisico e mentale cui va soggetto chi ha fatto sport ai più alti livelli possibili per tante stagioni. Ma la fatica devono averla sentita entrambi, perché essere dei campioni dello sport più popolare del pianeta significa avere addosso gli sguardi di tutti, ed essere esposti a tutto ciò che chiamiamo comunicazione di massa, che talvolta assume la forma di un tritacarne insostenibile.
Paolo Rossi aveva qualche anno in più di Maradona, ma la sua notorietà universale si è sprigionata in un unico evento, per quanto grandioso: i campionati del mondo del 1982.
Eravamo un'Italia non ancora uscita pienamente dagli anni di piombo eppure già proiettata nei saliscendi del decennio 80: il governo portava il nome di Giovanni Spadolini, esponente di spicco del Partito Repubblicano, e primo Presidente del Consiglio laico dal 1948. Era in carica dal 28 giugno del 1981, e presiedeva il primo governo del cosiddetto pentapartito (Dc, Psi, Pli, Pri, Psdi). Era la formula che, tra litigi proverbiali tra segretari di partito, terrà banco nella politica italiana fino alla fine degli anni '80. La scoperta degli elenchi degli affiliati alla loggia P2 era cosa recente, ed aveva convinto il presidente Sandro Pertini ad accelerare nel cambio di direzione di governo. Alla fine di aprile del 1982 il segretario del Partito comunista siciliano Pio La Torre era stato crivellato di colpi dalla mafia insieme all'autista Rosario Lo Salvo nel quartiere Zisa di Palermo. Il 5 giugno quasi 200mila persone parteciparono a una marcia per la pace a Roma mentre il presidente americano Ronald Reagan era in Italia per una visita di Stato. Il 18 giugno dello stesso anno il cadavere del banchiere Roberto Calvi fu trovato a Londra, sotto il ponte dei Frati Neri. Un'Italia a tinte fosche, potenza industriale fragile e inquietante, piena di scheletri nell'armadio.
Il campionato del mondo si stava svolgendo in Spagna da alcuni giorni. Il 13 giugno l'Italia aveva pareggiato con la Polonia (0-0), risultato che si riprodusse anche nei successivi due incontri, con il Perù e con il Camerun (1-1 con entrambi). Era sembrata a tutti un'Italia ingolfata e minore, che aveva strappato il passaggio agli ottavi di finale con molti patemi d'animo. All'attivo tre soli punti e solo due gol. Somigliava all'Italia politica, ancora priva di un'identità autorevole e comunicabile, immersa in una serie di fatti oscuri ed estremi. Impaludata.
Dagli ottavi di finale in poi una luce attraversò la squadra, e noi con essa. Il portatore di quella luce si chiamava come migliaia di altri italiani, Paolo Rossi. Il signor Rossi fu il protagonista di una metamorfosi del tutto inaspettata dopo il deludente girone d'esordio, trasformandosi in un supereroe dal nome spagnolizzato e infantile, Pablito. Era già un grande giocatore e un abilissimo goleador, incappato in una brutta storia di calcio-scommesse (Totonero) che gli era costata una pesante squalifica. Nel 1982 era stato da poco acquistato dalla Juventus, e doveva sentirsi addosso un bruciore reputazionale che imponeva la voglia di un riscatto. Ma nel girone iniziale del Mundial la sua energia non trovava espressione compiuta. Vennero gli ottavi con l'Argentina, che passarono alla storia soprattutto per la marcatura asfissiante di Gentile su Maradona, e alla fine il Pibe de oro lasciò il campo di Barcellona con le pive nel sacco. Ma Rossi era ancora a secco. Vennero i quarti con il Brasile. Il clima emotivo era radicalmente cambiato. Gli italiani non si aspettavano la vittoria contro l'Argentina, e la robustezza di cui aveva dato prova la squadra prese a stupire favorevolmente i tifosi. Qualcuno cominciò a sperare. In fondo, era dal 1938 che l'Italia non sollevava la coppa mondiale, nonostante la prova straordinaria di Messico '68. Il Brasile era quello di Falcao, Socrates, Cerezo e Zico. Ma noi avevamo un grande e maturo portiere friulano, e poi Gentile, Cabrini, Antognoni, Scirea, Tardelli. E Pablito.
Paolo Rossi sembrò a noi tutti ventenni dell'epoca una sorta di manifestazione incontenibile di potenza sovrannaturale. Non era un giocatore: visto con occhi carioca era una grandinata micidiale, una calamità naturale, un disastro assoluto. Visto da noi era semplicemente un miracolo. La nostra squadra dimostrava capacità di tenuta insospettabili di fronte al talento dei brasiliani, ma era Pablito a fare la differenza, perché ogni palla appena giocabile veniva sottratta al caso e scaraventata in porta come se fosse inevitabile, addirittura tre volte. L'Italia si fece paonazza dall'emozione, e ridiventammo un popolo di ostinati masticatori di avversità. Dopo il Brasile il resto fu in realtà in discesa, ma anche contro la Polonia che ci ritrovammo di fronte in semifinale il signor Rossi fu incontenibile (due gol entrambi nel primo tempo), e così fu anche contro la Germania in finale. L'Italia esplose, e fu vera gioia, sublimata dalle manifestazioni di entusiasmo del presidente-partigiano e persino dalle partite a briscola che Pertini giocò nell'aereo di ritorno a Roma con Bearzot e i giocatori più esperti: persone autentiche, che avevano resistito alla delusione delle prime partite e che avevano creduto all'antico adagio che vede gli italiani favoriti nelle situazioni disperate.
Paolo Rossi ci aveva regalato quei brividi e quella consapevolezza impervia, e lo aveva fatto con un sorriso solare, abbracciando tutti i compagni, disegnando un'Italia di talento sorretta da una compagine di lottatori. Fu un attimo, ma talmente perfetto da risultare indimenticabile. L'attimo in cui un Paese fragile e complicato si scoprì capace di imprese memorabili, illuminate dal sorriso adolescente di un uomo che portò il proprio riscatto fin dentro la nostra mente collettiva.
Stefano Cristante
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