Lavoro e deficit di formazione: è culturale il cuore della rivoluzione digitale

di Mauro CALISE
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Lunedì 14 Giugno 2021, 05:00

Fa capolino periodicamente la notizia – ne ha parlato recentemente Federico Fubini sul Corriere – che, a dispetto della disoccupazione dilagante, mancano a molte imprese i lavoratori con i profili che servirebbero loro. Ma molto più drammatico – e ben più arduo da colmare – è il gap che sta venendo fuori in questi giorni. Quello dei quadri intermedi, il middle management cui dovrebbe essere affidata l’attuazione del Recovery Plan, e spesso la sua regia. È un vuoto che si è ampliato in questi anni, per i limiti della nostra offerta formativa e l’incapacità del sistema Italia di assorbire quei pochi con le competenze adeguate, costretti a fare la valigia.

Se ne è accorto per primo Brunetta, che ha dovuto riaprire i termini per il concorsone per il Sud bandito da Provenzano. L’obiettivo sarebbe assicurare 2.800 figure tecniche con contratti a tempo determinato per 36 mesi, «in grado di superare i nodi di capacità progettuale e di modernizzazione emersi in questi anni anche a causa dell’impoverimento della dotazione di personale degli enti locali, tra blocco del turn over e dei concorsi». Ma, dopo la selezione per titoli, in molte regioni alla prova scritta si è presentata meno della metà degli ammessi. Troppo poco appetibile la posta? Troppo arduo il test? Più probabilmente, i profili richiesti, riservati a competenze di altissimo livello ma comunque limitati a tre anni, hanno tenuto alla larga i migliori e scoraggiato i meno preparati. Resta il dato di uno scollamento evidente tra domanda e offerta. Che si potrà risolvere soltanto abbassando l’asticella delle pretese da parte della PA.

Un problema analogo si sta ponendo, in queste settimane, nello sforzo di rimpinguare i ranghi delle task force che, presso i diversi ministeri, dovrebbero coadiuvare il Mef nell’organizzare i flussi – di progettazione, implementazione e rendicontazione – dei fondi stanziati nel PNRR. Una sfida contro il tempo – e contro la ragnatela della nostra burocrazia – che metterà duramente alla prova il meglio del nostro milieu manageriale. È improbabile che simili figure siano oggi disoccupate. Più facile che presidino i gangli direttivi di qualche amministrazione locale così fortunata da esserseli faticosamente formati. Chi cederà alle lusinghe della sirena della resilienza darà forse un contributo alla causa nazionale ma, al tempo stesso, aprirà una falla nella sede già così fragile che lascerà vacante. Il paradigma – per dirla in linguaggio accademico forbito – del cane che si morde la coda.

Non ci sono scorciatoie per uscirne. Ma mentre – inesorabilmente – tutti i decisori si affannano a tappare ciascuno i propri buchi in un mercato a corto di toppe, si potrebbe almeno mettere mano seriamente al problema che sta a monte: il deficit di formazione altamente qualificata. Sia in ingresso che on the job. Fino a qualche anno fa, sarebbe stata un’impresa titanica. Oggi, grazie alla rete e – si fa per dire – alla pandemia, i grandi atenei internazionali, in sinergia con le migliori imprese, stanno diventando il nuovo hub per le lauree specialistiche e i master più richiesti dal mercato del lavoro. Programmi che si possono montare – ed erogare – in pochi mesi, per preparare e accompagnare ai compiti più impegnativi. In Italia ci sono tutti i presupposti per giocarsi al meglio questa sfida.

Ma il tempo stringe.

Dopo il mantra dell’uno vale uno, ci si sta finalmente accorgendo della voragine che si è aperta nella piramide meritocratica. Ma il rischio è di rispolverare vecchie ricette e vecchie scuole, con pochi iscritti e rette salate. Al contrario, la digital education consente di democratizzare la formazione di qualità, preservandone standard elevati. E, grazie alle tecnologie più innovative, offrire contenuti di avanguardia a platee molto più ampie. Come nel caso della Smart Export Academy, promossa dal Maeci e dall’Ice, col contributo delle migliori business school, che già conta oltre 6mila iscritti tra PMI e professionisti del settore.  Un benchmark che si potrebbe riproporre agevolmente in molti altri contesti. Basterebbe convincersi che il cuore della rivoluzione digitale non è informatico, ma culturale.

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