Il caos dei Cinquestelle e i rischi per Conte di finirne prigioniero

di Mauro CALISE
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Lunedì 2 Agosto 2021, 05:00

Alzi la mano chi vorrebbe essere nei panni – e nel pallottoliere – di Conte. Quando Grillo gli aveva chiesto di prendersi per acclamazione il Movimento, avrà intuito – da navigato giurista – che avrebbe trovato qualche intoppo. E – come presto si è visto – molti fossi. Ma ormai è un percorso di guerra, e l’unica certezza è che ogni giorno sarà peggio di quello precedente. Sia che si tratti di contare gli iscritti, di cui continua l’emorragia, sia che debba provare a stimare quanti voteranno a favore e quanti contro in ogni provvedimento che si annuncia nelle aule di Camera e Senato. Per non parlare del grande slam, quando nell’urna si dovrà depositare il nome del prossimo Capo dello Stato. Inutile chiedere a Conte. Anche dopo che – finalmente – i grillini lo avranno eletto leader, non saprà chi lo seguirà. La matassa si è così ingarbugliata, che nessuno è più in grado di sbrogliarla.

Le spiegazioni sul perché sia successo sono molte, e per lo più convergenti. Erano un partito personale, e il loro padre-padrone, Beppe Grillo, ha ceduto l’usufrutto tenendosi però la proprietà. Erano un partito digitale, e l’azienda che controllava il server se n’è andata portandosi le chiavi. Erano un partito-movimento, ma nelle istituzioni di governo c’era posto solo per pochi. Quelli rimasti fuori, continuano a fare movimento – cioè, casino. Tenendosi ben stretta l’arma capace di far saltare il banco, la bomba dell’ideologia antisistema. Mettete insieme questi fattori, nel medesimo frullatore, e avrete i Cinquecentostelle. O cinquemila, cinquantamila. Non più un partito personale. Ma centomila nanopartitini. Il trionfo dell’uno vale uno.

Il risiko dell'imboscata

In tempi normali avremmo avuto l’eutanasia di un partito. Con corredo di necrologi interessati, speranze di resurrezione, diagnosi di lenta consunzione. Ma non siamo in tempi normali. Siamo in tempi eccezionali. In cui la risorsa più preziosa e indispensabile è la certezza del comando. L’Italia ha potuto, fino ad oggi, affidarsi al carisma di Draghi. E al fatto che i partiti che lo appoggiano hanno capito che, senza Draghi, andiamo dritti e rapidamente a picco. O, almeno, era così sino a poco tempo fa. Oggi, l’interrogativo che gira nei confabulari di Palazzo è quanto ancora si possa fare affidamento sui voti pentastellati. E se Conte riesca a diventarne il depositario affidabile.
Una variabile di questa domanda insinua che l’Avvocato professore sia lui stesso ad alimentare il risiko dell’imboscata, per vendicarsi di essere stato sbalzato bruscamente da Palazzo Chigi.

E a conferma di questa ipotesi si cita il corteggiamento dei ribelli in cui Conte si sarebbe attivato. Ma, al posto suo, voi cosa fareste? Li lascereste andare? A questo punto, è inutile provare a districare la realtà dalla sua apparenza. Destreggiandosi tra le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede, non si riuscirebbe comunque a modificare l’assioma di De Curtis di cui è prigioniero il Movimento – e Conte. Quando pure conoscessimo la somma, ci mancherebbe il totale.

La carta di riserva

A questo punto – piaccia o meno – si fa strada l’idea che per riuscire a blindare almeno le decisioni più importanti dell’esecutivo in carica, ci sia bisogno di una carta di riserva. Più propriamente, di un asso nella manica. L’asso di Giorgia Meloni. È improbabile che nei prossimi mesi, quando si gioca la partita del Colle e quella sulla durata della legislatura, la leader più popolare del momento decida di starsene in panchina. Sa di avere già fatto il pieno del voto di opposizione duro e puro. E, infatti, a più riprese si è mostrata duttile sulle questioni che necessitano di un mix di decisionismo e pragmatismo. Che è poi la sua cifra identitaria più autentica, e di maggiore appeal. Restare fedele a se stessa anche quando cambia opinione. Una dote che fa la differenza tra il carisma di celluloide e quello che viene da dentro.

Sarebbe un’ironia della storia che la diaspora dei Cinquestelle aprisse un varco verso il potere alla loro più strenua antagonista. Come sarebbe fuorviante la chiosa che un populismo tira l’altro. L’ingresso in campo della Meloni schiuderebbe nuovi scenari. Altro che uno vale uno.
 

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