La morte di Silvio Berlusconi, Latorre: «Errore demonizzarlo. Le inchieste su di lui? Coazione a ripetere»

La morte di Silvio Berlusconi, Latorre: «Errore demonizzarlo. Le inchieste su di lui? Coazione a ripetere»
di Francesco G. GIOFFREDI
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Mercoledì 14 Giugno 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 17:23

«È incontestabile: Silvio Berlusconi ha segnato un’epoca».
Nicola Latorre, direttore dell’Agenzia Industrie Difesa e docente alla Luiss, già parlamentare con Ds e Pd e stretto collaboratore di Massimo D’Alema: il fiume di reazioni, pur prevedibile, racconta molto.
«Sì, penso a quanti stanno partecipando al cordoglio, pur da diversi punti di vista, per ricordarne la figura e il ruolo. Ci sono anche autorevolissimi leader internazionali. La vicenda italiana è stata segnata dalla presenza di Berlusconi e l’eredità resterà pesante».
È stato il fondatore del centrodestra, 30 anni fa. Ma di riflesso ha contribuito a compattare pure il centrosinistra. Un involontario padre del bipolarismo.
«Per nulla involontario. Anzi: il suo progetto politico nasce con l’intento di unire le forze moderate e conservatrici come alleanza di governo. Con la fine della Prima Repubblica tutti i protagonisti di allora si rendono conto della necessità di dare l’avvio a una nuova stagione politica e istituzionale, e si cerca di dare risposte in ogni modo a questa esigenza. Un problema avvertito già prima della dirompente stagione di Tangentopoli e del crollo della Prima Repubblica. Berlusconi intuisce che ci sono le condizioni per un assetto bipolare e capisce che sono necessari non solo la costruzione di un nuovo sistema politico, ma anche un riassetto istituzionale. Sotto il primo aspetto riesce a portare avanti il progetto, sotto il secondo coglie un limite: riformare l’assetto istituzionale avrebbe potuto mettere a rischio il consenso elettorale».
Si riferisce al tavolo della Bicamerale improvvisamente rovesciato nel 1998?
«Nonostante condividesse quello schema di riforme, cambiò posizione: quel riassetto avrebbe messo in difficoltà il suo schieramento. È una schizofrenia che ha condizionato tutto il processo politico successivo e la stessa capacità di governo del centrodestra. La rivoluzione liberale non si sarebbe compiuta, stessa cosa per il programma riformista del centrosinistra. Ecco: il bipolarismo aveva il suo limite in un sistema istituzionale non adeguato. Ma tanto il centrodestra quanto il centrosinistra hanno preferito il calcolo politico alla prospettiva strategica».
Tanto si è detto e scritto sul rapporto tra Berlusconi e D’Alema, prima, durante e dopo la stagione della Bicamerale: qual è la verità?
«Non sono stato testimone diretto della fase della Bicamerale, arrivai a Roma quando quel percorso si stava esaurendo. Posso dire che tutto questo presunto dialogo tra loro due, dopo il 1998, non c’è stato. Anzi, ricordo momenti di tensione altissima, per esempio alle Politiche del 2001: D’Alema rinunciò alla candidatura nel proporzionale e si giocò tutte le chance all’uninominale di Gallipoli, e Berlusconi venne a fare campagna elettorale per Alfredo Mantovano. Due personalità forti che aspiravano a guidare i rispettivi schieramenti e a marcare l’identità, in un rapporto di profonda diversità, ma di reciproco riconoscimento del rispettivo valore».
Lei che ricordi diretti, e aneddoti, ha di Berlusconi?
«Nel mio ruolo di collaboratore di D’Alema e di vicepresidente del gruppo al Senato ho avuto modo di incontrarlo due volte a quattr’occhi. La prima nel 2006: dovevamo eleggere il presidente della Repubblica, il nostro partito immaginava di poter candidare D’Alema, a molti di noi era affidata un’attività di “ricognizione”. Agostino Saccà, allora direttore di Rai Fiction, mi procurò un incontro con Berlusconi e mi colpirono due cose: la sua capacità empatica, sembrava mi conoscesse da chissà quanto tempo; e la quantità di telefonate ricevute, interrompeva di continuo per parlare di Milan, Fininvest e altro, rimasi impressionato dal tasso di adrenalina».
E come si concluse quel primo incontro?
«Si mostrò indisponibile a garantire consenso a D’Alema, ma non avrebbe votato in generale nessun esponente del centrosinistra. Era concentrato solo su un centrodestra radicalmente alternativo. E infatti la telefonata con la quale Berlusconi spiegò a D’Alema che mai l’avrebbe votato contribuì definitivamente a far ritirare a Massimo la candidatura».
E il secondo incontro “privato”?
«Nel 2013, altra elezione del presidente della Repubblica e altro incarico per sondare: un comune amico organizzò un pranzo e ci lasciò soli. Si presentò con cinque scatole di cravatte Marinella da regalarmi, erano tutte con la targhetta “Silvio Berlusconi”».
Le ha mai indossate?
«Dato che ero spesso accusato di intelligenza col nemico, fui costretto a tagliare le targhette una ad una. La conversazione fu cordiale, doveva essere solo un “sondaggio”, ma di sicuro toccai con mano la sua straordinaria convivialità, che raccontava molto del personaggio e della sua popolarità tra gli italiani».
Berlusconi è stato l’antesignano del populismo, quantomeno nelle sue forme più primordiali e a bassa intensità? Di sicuro la scintilla del Berlusconismo è stata l’avvio di una nuova politica che ha obbligato tutti ad adeguarsi.
«Sull’utilizzo della parola “populismo” sarei un po’ cauto. Sicuramente Berlusconi inaugurò e avviò il suo progetto politico e la discesa in campo con una logica profondamente antipolitica. Ma decise di cavalcarla perché il Paese era a un punto di svolta e il rapporto di fiducia tra società e politica si era consumato. Intercettò quel sentimento e la stagione di Tangentopoli, le sue tv furono una cassa di risonanza, propose persino a Di Pietro l’incarico di ministro. Una volta al governo non solo gli riesce il miracolo dell’unità con la destra statalista e la Lega separatista, ma non immagina nemmeno un’impostazione di tipo populista, cerca anzi di rimediare al sentimento antipolitico. Che, negli anni, diventerà il vero ostacolo, tanto per la rivoluzione liberale quanto per il programma riformista del centrosinistra. Berlusconi è il primo a cavalcare l’antipolitica, ma anche il primo a coglierne i rischi».
Quella liberale è una rivoluzione in larga parte tradita. E il “nuovo” centrodestra sembra orientato su altre istanze, non esattamente su quelle liberali.
«Quanto accaduto in questi anni, dalla pandemia alla guerra, ha restituito centralità al ruolo dello Stato, negli anni scorsi ritenuto troppo invadente, anche dalla stessa sinistra. E sarei molto cauto nel vedere svolte autoritarie nel nuovo corso del centrodestra».
La personalizzazione della politica era una metamorfosi inevitabile, da Berlusconi solo accelerata?
«È stato uno dei tratti costitutivi della sua svolta. In tutte le campagna elettorali delle amministrative i manifesti non citavano nemmeno il candidato sindaco, ma lui. La sinistra ha inseguito quella tendenza, affascinata dalla personalizzazione, anche se declinata con modalità più contraddittorie e meno efficaci. Non si poteva e non si può prescindere da una forte capacità di leadership, ma questa non può essere esaustiva del progetto politico: è questo il vero problema irrisolto».
Il centrosinistra ha però fatto molto leva anche sulla demonizzazione di Berlusconi: alla fine, una strategia che si è rivelata un boomerang. Anche perché non accompagnata da un vero racconto alternativo del Paese.
«Nel bipolarismo la radicalizzazione del conflitto è inevitabile. Il punto è che non accadeva solo nei momenti elettorali topici, ma era diventato un modo per sopperire all’incapacità di produrre un progetto politico forte e innovativo. Per limiti culturali e soggettivi, il centrosinistra usava la demonizzazione dell’avversario come cemento. Ma sotto il vestito non c’era nulla».
La traiettoria di Berlusconi è stata attraversata anche dalle vicende giudiziarie, pure queste brandite spesso come arma politica. Anche a sinistra c’è chi ritiene che ci siano state forme di accanimento della magistratura.
«Al netto del merito delle singole inchieste, nei confronti di Berlusconi diciamo pure che c’è stata una coazione a ripetere.

Mi sembra oggettivo».

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