La ricerca dell'Osservatorio dell'Università Cattolica: «A rischio i conti pubblici in Puglia»

La ricerca dell'Osservatorio dell'Università Cattolica: «A rischio i conti pubblici in Puglia»
di Paola ANCORA
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Mercoledì 10 Maggio 2023, 05:00

«Autonomia e riforma istituzionale si legano assieme, noi abbiamo pensato a un unico pacchetto», ma «anche su questo siamo disponibili al confronto» ha detto ieri la premier Giorgia Meloni, al termine dell’incontro con le opposizioni, alla Camera, sul tema delle riforme che il centrodestra, maggioranza di governo, intende portare avanti. A partire proprio dall’autonomia differenziata che ha spinto il Sud - governatori, sindacati, associazioni, intellettuali - a erigere barricate e promettere battaglia, se il disegno di legge confezionato dal ministro Roberto Calderoli andasse avanti così com’è lungo un iter che lo stesso ministro vorrebbe il più breve possibile.
Il regionalismo immaginato dal ministro leghista segue il modello spagnolo, dove poche Regioni - per esempio la Catalogna - godono di una autonomia forte, anche più di quella garantita dalla Costituzione alle Regioni italiane a statuto speciale. Per il Sud, un’autonomia differenziata così concepita significherebbe mettere una pietra tombale su ogni prospettiva di agganciare il Nord e la sua crescita. Tanto più che lo Stato, chiamato a perequare servizi e risorse per garantire ovunque pari diritti, vedrebbe appesatirsi il suo bilancio. A dirlo è l’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano che in un recente studio ha analizzato proprio il funzionamento delle Regioni a statuto speciale, cui vorrebbero “somigliare” Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, le prime ad aver siglato l’intesa con l’allora Governo Gentiloni per avocare a sé più funzioni e autonomia. 

I dati

La Valle D’Aosta, per esempio, trattiene tutto il gettito Irpef maturato sul territorio, tutta l’Ires (la tassa sulle imprese), l’Iva e tutta l’accisa sui carburanti. Le Province autonome di Trento e Bolzano trattengono il 90% dell’Irpef, il 90% dell’Ires, l’80% dell’Iva e il 90% dell’accisa sui carburanti. Allo Stato centrale, insomma, restituiscono poco o niente. Ma ciò che «sorprende», scrive l’Osservatorio sui conti pubblici nel suo rapporto, è che – nonostante il trasferimento di numerose funzioni - lo Stato continui a spendere una grande quantità di denaro proprio per quelle Regioni a statuto speciale, risorse che si aggiungono al gettito fiscale già a loro disposizione. «La spesa delle amministrazioni centrali in questi territori - scrivono i ricercatori della Cattolica di Milano - è sì mediamente un po’ più bassa (in termini pro capite) che nelle Regioni a statuto ordinario, ma in misura limitata e non tale da compensare la più elevata spesa locale». 
Ancora un esempio. Nella provincia autonoma di Bolzano la spesa pubblica pro capite è di 20.637 euro. In Puglia, la stessa spesa è di 12.062 euro per cittadino. E a sbirciare meglio nei conti, si scopre che nella provincia bolzanese l’amministrazione centrale garantisce 9.222 euro per ogni residente, in Puglia invece lo Stato si “ferma” a circa 8.800 euro nonostante le profondissime differenze fra i servizi garantiti ai cittadini che vivono nell’uno o nell’altro territorio. Lo stesso dicasi per la Campania, la Calabria o la Basilicata. Così come le risorse garantite dallo Stato alla Regione a statuto speciale Friuli Venezia Giulia sono di poco più basse di quelle a disposizione del Lazio, che dentro i suoi confini “ospita” Roma Capitale, tutti i ministeri e il relativo personale. 
Per calare i numeri nella realtà di ogni giorno, si pensi che nonostante la scuola sia una funzione trasferita interamente dallo Stato alla Valle D’Aosta e alle Province autonome di Trento e Bolzano, lo Stato spende ancora 597 euro per abitante per il personale scolastico della regione confinante con la Francia, 477 euro per la Provincia autonoma di Bolzano e 315 euro per quella di Trento. Insomma, piove sul bagnato. E non è tutto. Secondo l’Osservatorio della Cattolica di Milano siamo probabilmente davanti a dei doppioni nella spesa, ovvero a una «sovrapposizione di uffici amministrativi tra Stato e Regione in questi territori». «I nostri conti - scrivono i ricercatori - suggeriscono che sia almeno probabile che le risorse lasciate a questi territori tramite le compartecipazioni siano state maggiori di quanto sarebbe stato necessario per finanziare i servizi devoluti. E se questa generosità è sostenibile per il bilancio pubblico finché si parla di realtà assai piccole, è difficile che resti tale se lo stesso processo riguarderà le grandi Regioni del Nord del Paese, dove si concentra la gran parte della base imponibile dei tributi nazionali». 
Così, se Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna diventassero come oggi il Friuli, il Trentino o la Valle d’Aosta (giacché per le Regioni a Statuto speciale del Sud, Sicilia e Sardegna, la spesa pubblica complessiva resta “tarata” sul livello generale del Mezzogiorno) i conti pubblici dello Stato finirebbero per traballare più di quanto non facciano già e il Meridione sarebbe, ancora una volta, fortemente penalizzato nelle sue prospettive di sviluppo. Con quali denari lo Stato riuscirebbe a finanziare i Lep, cioè i Livelli essenziali delle prestazioni indispensabili a colmare i gap già profondi fra Nord e Sud del Paese? «Preoccupa - concludono i ricercatori della Cattolica - che il Ddl Calderoli sembri prefigurare un processo di finanziamento per le funzioni devolute alle Regioni del tutto analogo» a quello delle Regioni a statuto speciale. Con il rischio che a pagare il prezzo della rivendicata autonomia di tre Regioni settentrionali siano i cittadini di tutte le altre. 
 

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