Don Tonino Bello, trent'anni dalla scomparsa. Vendola: «C'è bisogno della sua luce»

Don Tonino Bello, trent'anni dalla scomparsa. Vendola: «C'è bisogno della sua luce»
di Francesco G. GIOFFREDI
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Mercoledì 19 Aprile 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 22:07

La convivialità delle differenze, l’educazione all’accoglienza, la Chiesa “col grembiule”, l’ascolto, la carità “promozionale”, il valore della Pace: Nichi Vendola, la figura di don Tonino Bello è sempre stata di abbagliante attualità, o - come lei ha già detto in passato, con un paradosso - “di straordinaria inattualità”. In questo tempo di contraddizioni è forse un’eredità che risuona perlopiù come un monito inascoltato, è così?
«A rileggere le cronache degli ultimi trent’anni si rischia il crepacuore. Il mondo è precipitato rovinosamente all’indietro, nonostante gli straordinari avanzamenti della scienza e della tecnica: viviamo un’epoca ibrida, in cui convivono la postmodernità e una livida preistoria, le seduzioni del metaverso e il rinculo nel tribalismo. E sopra le nostre esistenze svolazza, come un avvoltoio, la minaccia della bomba atomica, mentre attorno a noi si consuma una vera catastrofe ecologica: non credo che don Tonino offrirebbe prediche consolatorie, penso che si sentirebbe tradito, tradito lui, tradito Dio, tradito il comandamento biblico della cura della casa comune. È un mondo dominato dal cannibalismo del potere. La finanza e gli apparati industriali militari hanno colonizzato la politica e messo sotto ipoteca la democrazia. Tutto chiede conversione: l’economia, il clima, le relazioni tra i popoli, le culture, gli individui. Tutto urla il bisogno di pace e di giustizia. E invece siamo nel momento più buio della notte e abbiamo un impellente, travolgente bisogno di una sentinella, come fu don Tonino, che sappia indicarci l’alba».
Il Mediterraneo luogo non più di pace e incontro, ma di morte e “muri”: l’utopia di don Tonino è stata ribaltata, quasi del tutto. Ma come si può restituire forza e valore “politico” a quel messaggio? Il tema delle migrazioni è di irriducibile complessità, tra flussi da gestire, sistema dell’accoglienza da ripensare, relazioni (e responsabilità) istituzionali da modulare.
«Don Tonino ci esortava alla franchezza, a cercare la verità senza edulcorarla o mistificarla: la chiamava “parresia”. E allora diciamo con franchezza che il Mediterraneo è lo specchio che rimanda l’immagine di una Europa rattrappita, chiusa nelle sue isterie identitarie e nazionaliste, incapace di fare i conti fino in fondo con i buchi neri della sua storia (dal colonialismo al fascismo), un continente vecchio e infecondo che si barrica a difesa del proprio egoismo, che s’impegna a combattere i poveri piuttosto che la povertà, che confida nella cura pedagogica dei respingimenti e dei lager per disincentivare l’immigrazione, che recita un rapido de profundis dinanzi alla processione di cadaveri che attraversa il “mare nostrum”. Le classi dirigenti europee hanno tradito la missione di giustizia e di pace per cui era nata l’Unione. In questa opacità continentale brilla, in negativo, la stella dell’Italia».
E poi c’è il grande fronte dell’invasione russa in Ucraina e della guerra alle porte dell’Europa. “Pace” è l’obiettivo di tutti, il disarmo la strada spesso indicata da chi evoca il pensiero di don Tonino Bello. Anche qui, però, ci muoviamo su un orizzonte di complessità: c’è un invasore e c’è un popolo invaso che ha il pieno diritto alla resistenza. Come conciliare allora la “scommessa sulla Pace e su Cristo” con la strenua lotta degli ucraini?
«Occorrerebbe rileggere le pagine di don Tonino sulla sistematica denigrazione della cultura di pace e del movimento pacifista. Io ho molto rispetto per le posizioni di chi, come Erri De Luca, rivendica il diritto a sostenere gli aggrediti. Ma rivendico a me il diritto a non essere accusato di filo-putinismo se penso che le armi peggiorano e non migliorano la situazione. Chi crede che la pace si prepara con la pace non è un utopista. C’è piuttosto una utopia regressiva in chi promuove quella escalation bellica che ci sta portando verso rischi di conflitto globale».
La Puglia - e il suo decennio di governo in tal senso è stato centrale, è giusto ricordare anche la figura di Minervini - s’è sempre ritagliata l’identità di terra dell’accoglienza, della convivialità delle differenze, degli incroci, delle tutele sociali e degli ultimi, agganciando spesso proprio la lezione di don Tonino. Ora quel patrimonio si è dissipato? Vede esaurita quella spinta? Un problema socio-culturale, prima che politico.
«Ci sono le stagioni anche per la politica, viene l’inverno poi viene la primavera. Con Guglielmo abbiamo avuto la fortuna di condividere il tepore e la dolcezza di una bella primavera della politica. Ma io penso che la semina di don Tonino ha certo dato nel suo tempo tanti buoni frutti, ma sono convinto che i frutti più buoni e più belli saranno quelli che ora sono ancora solo dei semi o che hanno appena cominciato a germogliare».
Don Tonino aveva intravisto molte delle contraddizioni poi esplose negli anni, dalla paura dello straniero al senso di comunità ormai polverizzato, fino ai rischi della globalizzazione: siamo andati oltre i timori del vescovo salentino? E i suoi messaggi, al di là delle periodiche rievocazioni, non rischiano ormai d’essere solo un “esercizio di stile”, riducendo don Tonino a un santino o poco più?
«Proprio per questa ragione io parlo, provocatoriamente, di “straordinaria inattualità” del nostro vescovo, perché i suoi “pensieri lunghi” sono l’esatto contrario dei pensieri cortissimi che guidano, nei giorni nostri, il dibattito politico e le scelte dei governi. Se vince l’ideologia della paura, muore l’annuncio della buona novella, collassa il principio-speranza, inciampa rovinosamente l’umanità».
Di recente Papa Francesco ha ricordato don Tonino, definendolo “un profeta”, “non compreso nel suo tempo perché molto avanti”: la “Chiesa in uscita” e aperta di Bergoglio è sintonizzata sulla lezione del vescovo salentino?
«Papa Francesco ha dato una scossa inaudita alla Chiesa innamorata del diavolo del potere e dei “sacri affari”, ha vestito il suo mondo con quel grembiule evocato da don Tonino, ha saputo non ritualisticamente lavare i piedi ai poveri.

E il suo lessico, i temi sollevati, i gesti compiuti, sono davvero nel solco del magistero e della storia di quel mite pastore di Alessano, di quel nostro profeta che la pace la collocò non in una campana di vetro, ma nel corpo vivo e dolente della storia umana».

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