Galli della Loggia e la sua lettura “risentita” degli anni della Repubblica

di Francesco FISTETTI
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Lunedì 16 Gennaio 2017, 18:36
La lettura del libro di Ernesto Galli della Loggia “Credere tradire vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica”, recentemente edito dal Mulino, mi ha riportato indietro alla fine degli anni Settanta del secolo scorso quando, molto giovane, dalle colonne dell’Unità intervenni nella polemica su “democrazia e socialismo” aperta da Bobbio e che coinvolse tutta l’intelligenza di sinistra del tempo, in particolare sull’Avanti! e Mondoperaio. Ho ritrovato su Internet il mio articolo dimenticato in cui contestavo la tesi di Galli della Loggia circa il fallimento del marxismo, sostenuta da un gruppo di intellettuali come Colletti, Bedeschi, Pellicani, Cafagna, Settembrini ed altri. Ciò che mi sforzavo di chiarire in quell’articolo del 1978 era in primo luogo che la critica sacrosanta degli aspetti totalitari – o “illiberali”, come ancora eufemisticamente ancora dicevo - dell’Urss e dei regimi dell’Est non poteva significare una liquidazione totale, una tabula rasa del paradigma di Marx e delle sue categorie di analisi del presente. Per quanto mi riguarda, avrei registrato, in “La crisi del marxismo in Italia. Un abbozzo di storia degli intellettuali (1980-2005)”, il mancato rinnovamento della cultura di sinistra (di tutta la sinistra, non solo del Pci) e la sua inadeguatezza intellettuale di fronte alle grandi trasformazioni che l’annus mirabilis del 1989 da un lato e i processi impetuosi della globalizzazione dall’altro hanno introdotto.
Segnalavo in quest’ultimo libro del 2006 che uno dei deficit dell’intelligenza di sinistra di quegli anni era da rintracciarsi nel rifiuto pregiudizievole della categoria di totalitarismo, in particolare nella elaborazione filosofico-politica che ne aveva proposto Hannah Arendt (una teoria che tra i pochi solo lo storico Emilio Gentile avrebbe ripreso e sviluppato).
Ma soprattutto era sulla teoria della democrazia e sul rapporto tra capitalismo e democrazia che quella polemica della fine degli anni Settanta si mostrava ormai datata rispetto ai processi in corso, di vertiginosi mutamenti, che nessuno riusciva ancora a cogliere e decifrare nella loro complessità e contraddittorietà. Il limite della posizione di Galli della Loggia di allora è ancora quello riscontrabile nel libro di oggi. Alla “crisi della democrazia”, di cui in quegli anni si dibatteva, provocata dalla crescente domanda di inclusione e di partecipazione al governo della cosa pubblica, Galli della Loggia riteneva che bastava rispondere delegando l’attività politica e di governo ad “élites dotate di competenza tecnica e di «devozione e lealtà» nei confronti dei loro mandatari”, mentre da parte mia indicavo nella crisi dello Stato sociale e nella critica neoliberista del modello keynesiano il vero passaggio d’epoca.
In breve, Galli della Loggia e molti degli intellettuali vicini al partito socialista di Craxi credettero che il “revisionismo” di cui la sinistra aveva bisogno fosse quello di fare propria una teoria della democrazia come un insieme di procedure e di garanzie, mentre una parte rilevante della cultura del Novecento (da Dewey a Habermas a Walzer, a Castoriadis, a Lefort, a Honneth, a Sen, tanto per fare alcuni nomi) aveva ampiamente sottolineato che la democrazia è soprattutto spazio politico agonistico di discussione, sfera pubblica di formazione delle opinioni, società civile ricca e articolata o, come amava dire Tocqueville, “arte di associarsi” in vista della partecipazione alla cosa pubblica e in vista della riduzione delle diseguaglianze. Nella ricostruzione compiuta da Galli della Loggia – un libro, come egli dice, “di storia e di ricordi, di vicende pubbliche da un lato e di sentimenti personali dall’altro” – la dimensione della democrazia è solo quella “procedurale” o verticale, cioè quella delle istituzioni della rappresentanza, e mai in nessun momento viene tenuto in conto la dimensione orizzontale, fatta di movimenti dal basso, di istanze e luoghi di associazione, di canali di dibattito pubblico, di lotta per la conquista di libertà sociale.
Qualcosa che ha a che fare con la cittadinanza attiva e con una dialettica politica di cui la società civile o, come potremmo dire meglio, la società civica, stando agli stessi classici del liberalismo, è parte integrante. Ma il fatto è che nella ricostruzione di Galli della Loggia è del tutto assente la storia delle idee che sempre accompagna la storia politica: nulla della ricerca filosofica (nell’ambito del marxismo e del postmarxismo), nulla della ricerca storiografica, nulla della ricerca nelle scienze sociali ed economiche nella loro incidenza sull’analisi della società. Viene sì giustamente presa di mira la “vulgata gramsciana”, costruita da Togliatti nel secondo dopoguerra, ma che verrà sottoposta ad un fuoco di fila di critica già all’interno del Pci da intellettuali come Luporini, quando comincia ad emergere un altro Gramsci, quello della “rivoluzione passiva”, di “americanismo e fordismo”, dell’egemonia, ecc., che avrebbe fornito attrezzi teorici importanti per la comprensione del colonialismo, del rapporto Oriente-Occidente (vedi Orientalismo di Said), del bonapartismo e del cesarismo come fenomeni politici delle postdemocrazie contemporanee.
Così pure, nemmeno una parola sul liberalismo di sinistra in Italia, su quella tradizione nascosta che va da Gobetti a Tommaso e Vittore Fiore, che batte l’accento sui fallimenti della logica spontanea del mercato. Senza dubbio, Galli della Loggia fa bene a rimarcare i limiti del Partito d’Azione, il suo elitismo aristocratico e il suo essersi arreso al Pci almeno da parte di molti suoi esponenti. Ma è sbagliato ed indice di settarismo il non riconoscere l’originalità della tradizione azionista, come pure l’ignorare l’originalità del socialismo liberale e del liberalsocialismo (da Rosselli a Calogero). Le parole di velato disprezzo che Galli della Loggia riserva a figure politiche come Parri o ai cosiddetti “indipendenti di sinistra” sono davvero sconcertanti, perché immeritate. Con tutti i limiti di dogmatismo, di ortodossia e di angustia ideologica che viziavano il Pci, per cui molti di noi uscirono già prima del 1989, esso era pur sempre un luogo di aggregazione democratica, di formazione di una coscienza democratica di massa, di educazione delle élites e di allargamento delle basi del potere. Affermare, quindi, che il poblema italiano, soprattutto dal 1968 in poi, è stato la deprecatio contro il trasformismo, vale a dire l’aver bollato come traditori tutti coloro che si allontanavano dai clichés del “politicamente corretto” è una ricostruzione che non coglie i veri limiti della sinistra di allora: il non sapersi attrezzare di una cultura politica all’altezza della globalizzazione che stava mettendo fuori gioco le categorie ereditate dalla sinistra in tutte le sue varianti (socialdemocratica e comunista che fosse).
Ci sarebbero molte cose da discutere del libro di Galli della Loggia, come le pagine dedicate al presidente della Repubblica Ciampi, al quale viene attribuita la costruzione di un doppio mito – quello della “patria” e quello “europeo” – e al quale vengono imputate evidenti “ingenuità argomentative” per aver egli sottovalutato la debolezza del “sentimento nazionale” nella vita pubblica del Paese. Sono tutti aspetti che andrebbero problematizzati, ma resta la sensazione di un libro gravato da eccessiva partigianeria e talvolta da un malcelato risentimento.
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