Reichlin, il leader che non volle essere anche capo

Reichlin, il leader che non volle essere anche capo
di Stefano CRISTANTE
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Sabato 25 Marzo 2017, 18:35
Ci sono uomini che, pur avendone le doti, non sono mai diventati dei capi. Una parte più ristretta di essi non ha mai avuto problemi ad accettare tale destino. Uno di questi uomini era Alfredo Reichlin, scomparso martedì sera a Roma all’età di 91 anni. Per la sua intelligenza, per la sua capacità di studio e di lavoro, per l’ampiezza dei riferimenti culturali, per l’autorevolezza che sprigionava dalla sua persona, Reichlin era un capo. Tuttavia, non divenne mai segretario del Partito comunista, in cui militò ininterrottamente dal 1946 al 1991, per poi accettare la svolta occhettiana della Bolognina e seguire l’imbarcazione dei Democratici di Sinistra fino all’approdo del Partito Democratico, di cui fu padre nobile e iper-critico. Di questa vicenda storica Reichlin è stato parte significativa e importante. Ma non il capo.

Perché questo destino? La sua ossessione era l’analisi della situazione: concetto e pratica togliattiana, l’analisi rigorosa di un fallimento o di un successo elettorale così come di un conflitto internazionale o di una nuova emergenza economica non solo evita il ripetersi di errori, ma spinge la comunità all’autocoscienza e all’indipendenza ideologica. Dopo l’analisi – dibattuta aspramente ma alla fine condivisa dal partito –  si disponeva di una cartografia politica, mappata a partire dalle forze materiali in campo (i conflitti di classe) e dalle accelerazioni culturali (il ruolo degli intellettuali).

Proprio questo è il punto: nel dopoguerra alcuni uomini che erano destinati alle aule universitarie o all’industria culturale diventarono dirigenti del Partito comunista italiano, e, qualunque fosse la loro provenienza di classe (nel caso di Reichlin: la grande borghesia delle professioni liberali), furono attorniati e sostenuti da un popolo di contadini e di operai che esigeva diritti e si riconosceva nella spinta generale e democratica alla ricostruzione post-bellica. La Resistenza era stata il pericoloso e febbrile percorso iniziatico di quella generazione, che era uscita proiettata verso la vocazione politica senza aver potuto sperimentare un lavoro intellettuale completo, e quindi trasferendo nelle pratiche argomentative di partito tutta la tensione di un rinnovamento culturale che era stato presagito nell’arte, nei romanzi e nei film dell’Italia che cambiava.

Il compito intellettuale ha avuto un grande peso nel radicamento e nei successi elettorali del Pci: persone come Reichlin (“esteticamente” borghesi) hanno visto crescere intorno a sé giovani operai e giovani universitari che ne hanno riconosciuto il talento nel proporre analisi, nel servirsi di materiali di studio aggiornati e non ortodossi. Soprattutto, nel saper trattare la materia politica come un fronteggiarsi di visioni, ciascuna delle quali avrebbe potuto vincere o essere più efficace delle altre, cioè, come diceva Gramsci, esercitare egemonia. Anche la visione delle classi subordinate poteva vincere e governare il paese. In questo contesto, la questione del capo si ridimensiona. I tratti che Reichlin esprimeva in modo più evidente (retorica asciutta, schiena dritta, modi autorevoli, una buona dose di snobismo) erano propri di un intero gruppo di dirigenti comunisti che ha governato il partito dall’epoca togliattiana a quella occhettiana. Reichlin però aggiungeva ai ritmi propri della politica un certo gusto alle conversazioni private con gli amici. La costruzione del pensiero di sinistra in Italia è avvenuta anche così: non in salotti ma certamente a tavola, facendo incontrare politici e artisti, uomini di teatro e scrittori. Da quelle conversazioni nascevano delle convinzioni, o ne cambiavano altre. Oppure no, si chiacchierava di cinema e basta.

Reichlin aveva dei gusti cinematografici molto semplici: gli piacevano i grandi western, Bud Spencer, i film d’azione americani. Giudicava il cinema come una grande macchina dei sogni popolari, e si accontentava dei più semplici, saltando a piè pari tutti i cineforum pre e post-sessantottini. In compenso, era molto sofisticato nell’analisi delle mosse politiche dei protagonisti della scena mondiale e molto attento alla saggistica internazionale, interessato com’era a riflettere sul peso delle nuove tecnologie sulla società e sulle regole di un mondo in avvento, che percepiva senza poterle padroneggiare. Per il Reichlin ideologo, vi è stato a un certo punto un bivio: cosa c’è di più importante per il pianeta, il dinamismo neo-capitalista o lo scenario preoccupante di crisi ecosistemiche e annichilenti? Per alcuni anni Reichlin si immerse in studi economici per stare al passo con il pensiero di chi stava modernizzando il capitalismo. Ne emerse con un senso di claustrofobia: la politica risultava evidentemente ancillare rispetto alle forze economiche e finanziarie, e il capitalismo sembrava farsi più selvaggio invece che più keynesiano. D’altronde era stato Berlinguer, ammorbidendo una sollecitazione ingraiana, a parlare di “introduzione di elementi di socialismo nella società”. Nel corso del tempo, Reichlin ha lavorato su quel versante dell’analisi in modo profondo, documentandosi anche sulla rete e sulle emergenze ecologiche.

Quando elaborò il suo ultimo messaggio, quello del “Partito della Nazione”, aveva in mente qualcosa di ben diverso dal radunarsi di gruppi di potere stretti attorno a partiti monocratici e al patrio vessillo. Aveva in mente un’idea che ritornasse su un destino costituente, su una determinazione intellettuale a perseguire il bene comune, come nella Resistenza e, in fondo, in tutto il dopoguerra. Infatti, quando – recentissimamente – si trovò di fronte un altro bivio, quello del referendum del 4 dicembre, decise di schierarsi con quanti non volevano toccare la Costituzione, intravvedendo in quella carta la conferma di una visione democratico-radicale che favorisce la giustizia sociale e l’accrescimento culturale, che per alcuni – tra cui Reichlin – erano già “elementi di socialismo”. Ecco perché non è stato “il capo”. Non ne aveva bisogno perché la sua vita si era strutturata sull’idea di gruppo dirigente collettivo, il cui nerbo è costituito da persone che interpretano la vita come azione ma soprattutto come studio, perché in esso si trovano le coordinate giuste per capire dove andare e le argomentazioni con cui sostenerle. Insieme a chi andare è invece già scontato: sono quelli che sono stati attorno a Reichlin tutti i giorni, nelle redazioni dei giornali e nella direzione del partito, nelle sezioni e nei comizi, nelle manifestazioni, nei convegni, e che sentivano che quell’uomo – naturalmente capo – parlava per un’inclinazione profonda e perdurante, come se avesse scambiato la vita che il destino sociale gli aveva messo in mano con un’altra, diversa e segnata dall’impronta collettiva.

Reichlin non è diventato “il capo”, ma ha avuto una vita pienissima, sorvegliata fino all’ultimo da una lucidità intellettuale incomprensibile a chi vive nella brevità dell’azzardo di potere.
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