Un Paese da rigenerare

di Giuseppe MONTESANO
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Giovedì 25 Agosto 2016, 11:53
Stamattina sembra che sia passato un secolo, ma è solo da un giorno che la parola terremoto ci è risuonata di nuovo in testa.

Increduli all’inizio, poi sempre più feriti, come al tempo dell’Emilia, e dell’Aquila, e delle Marche, sempre appena svegli, o a tardissima notte, quando siamo più indifesi: e questa volta la parola nominava Amatrice, Arquato del Tronto, Pescara del Tronto, piccoli paesi e borghi al centro dell’Appennino, tra il Lazio e l’Abruzzo, e con la parola è tornata la realtà della spaventosa lentezza con cui si scoprono le vittime, lo stillicidio del numero di morti ufficiali che sale e sale silenzioso e implacabile, e quel senso di angoscia che cala su cose e persone: un’angoscia che, in quelli tra noi che sono nati da queste parti prima del terremoto del 1980, diventa ogni volta anche una memoria dell’angoscia vissuta allora. E rivediamo le scene delle macerie che prendono il posto di camerette di bambini e cucine in cui si rideva e si viveva, riascoltiamo che là manca l’acqua da bere e mancano tutte le cose normali che diamo per scontate, e poi come un morso nelle viscere risentiamo che ci sono anche bambini tra i morti: ma poi vediamo le facce pulite di uomini e donne comuni che hanno lasciato la propria casa comoda e sono arrivati tra le macerie per aiutare persone sconosciute come se fossero i propri fratelli, e la speranza comincia a rinascere, perché niente è mai perduto del tutto. E non serve gridare fatalisticamente al miracolo se si trovano le persone vive sotto le macerie: l’esperienza ci ha insegnato che anche dopo giorni le persone possono essere salvate, bisogna andare avanti a scavare e a lavorare e ad aiutare, e non fare come se la volontà dei singoli fosse un niente e sapessimo meno cose sui terremoti di quelle che sappiamo.

Il giorno dopo una catastrofe, nel dolore per ciò che è sempre insensato e straziante in ogni sciagura, è anche il tempo di ragionare. Sarebbe orribile risentire le ipocrisie delle istituzioni come al tempo dell’Aquila, e lo sciacallaggio della politichetta intorno alla morte e alla distruzione, e cominciare a preoccuparci dell’incapacità e della corruzione: dal passato dovremmo aver imparato non solo che le persone possono essere salvate molti giorni dopo, ancora e ancora, ma anche che non possiamo concederci di sbagliare ogni volta. Perché ogni volta un terremoto tragico arriva anche come una sorta avvertimento, e in mezzo alle macerie di quei paesini dell’Italia appenninica l’avvertimento suona forse più forte: siamo certi di fare tutto il possibile per preservare questo Paese dagli effetti delle catastrofi naturali? La bellezza in questo Paese è alleata alla fragilità, è fatta di un raffinato equilibrio costruito nei secoli tra natura e cultura, un equilibrio intelligente che non si mantiene da solo ma deve essere coltivato. Chiedetelo a uno straniero, che cosa cerca in Italia: e lui dirà che cerca questa impossibile convivenza tra borghi e colline, tra coltivazioni di viti e coltivazioni di memorie, tra paesi e paesetti e campanili e torri e olivi e esseri umani, un intreccio tra passato e futuro che è unico.

Da decenni gli studiosi e gli esperti veri, che per buona sorte questo Paese ha ancora in gran numero, parlano di lavorare sul dissesto idrogeologico che attraversa e incrina la Liguria come la Campania come il Lazio e come tutta l’Italia, e dicono che questo lavoro sarebbe fondamentale per preservare e rigenerare un territorio che è esso sì un vero miracolo: ma non succede niente perché finita l’emergenza finisce tutto, e i buchi di bilancio o le esigenze dell’Europa nascondono le voragini aperte nel corpo del Paese. E a un giorno dal terremoto di Amatrice pensiamo: questa catastrofe deve essere solo una catastrofe, con tutto lo strascico dei dolori, delle polemiche, delle retoriche, delle bassezze e delle incapacità come degli altruismi e delle grandezze? Oppure si potrebbe anche imparare da essa qualcosa per domani? E oggi imparare da una catastrofe vuol dire che, quando si parla di territorio e paesaggio e sviluppo si parla anche di lavoro e vivibilità, e quindi bisogna pensare in grande: e lavorare con pazienza a trasformare i grandi pensieri in realtà. E allora perché non sarebbe possibile un progetto di rigenerazione del territorio? E perché non pensare al lavoro sul paesaggio e sui luoghi come a un lavoro su quella risorsa economica del turismo che ha bisogno della bellezza fragile di Amatrice come di Urbino come di Capua come di San Gimignano come delle Cinque Terre? E perché non si potrebbero investire vere e anche ingenti risorse per creare ponti tra il lavoro di ristrutturazione del territorio e il lavoro delle tecnologie industriali come delle conoscenze che generano quelle tecnologie?

Non si può essere asserviti auto-distruttivamente all’emergenza: perché altrimenti non solo crollano le Borse per i mutui sulle case, ma crollano le case vere delle persone reali, crollano le loro vite e crolla il loro futuro. Dal centro del Paese, da quei piccoli paesi e borghi e campanili e torri e donne e uomini che sono l’essenza stessa dell’Italia secolare, e che potrebbero esserlo di un’Italia futura capace di unire lo sviluppo economico all’intelligenza e alla bellezza, viene un silenzioso ma tagliente avvertimento. Quell’avvertimento comparve sui giornali per il terremoto del 1980, e si manifestò nella disperazione che gridava «Fate Presto!»: oggi quell’avvertimento non vale solo per l’emergenza, ma vale per il futuro che è sempre già domani. Facciamo presto ad ascoltare l’avvertimento che viene dalla voce piena di dolore di Amatrice, Arquato del Tronto, Pescara del Tronto e dall’intera Italia della fragile bellezza e della fragile vita. La disperazione non serve: quelli che scavano alla ricerca dei vivi lo sanno, dovremmo capirlo anche noi, e cominciare a scavare alla ricerca dell’energia e della bellezza che a volte riusciamo ancora ad avere. Ascoltare la voce che ci richiama a noi stessi è saggezza che ci dice che possiamo essere davvero nuovi, non ascoltarla è stoltezza che ci condanna a essere vecchi. Cosa scegliamo?
 
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