Lecce, vincitori e sconfitti di una svolta annunciata

Carlo Salvemini
Carlo Salvemini
di Claudio SCAMARDELLA
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Lunedì 26 Giugno 2017, 13:42 - Ultimo aggiornamento: 29 Giugno, 21:50
Paradossi della politica. Il centrodestra berlusconiano vince nettamente la tornata delle comunali di ieri. Ma la più sbrindellata sinistra d'Italia, e della storia di Lecce degli ultimi vent'anni, riesce a espugnare il fortino di Palazzo Carafa, ultima roccaforte di rilievo regionale e nazionale del centrodestra a egemonia fittiana. E ci riesce con una vittoria schiacciante al ballottaggio, nonostante quel raccogliticcio 24% ottenuto dalla coalizione al primo turno, nonostante un Pd ridotto ai minimi storici e ai minimi nazionali (appena l'8%), nonostante il flop dei cespuglietti civici e nonostante le difficoltà nella formazione delle stesse liste. Ci riesce soprattutto per la capacità di trascinamento di Carlo Salvemini, che da domani siederà sulla stessa poltrona del padre 20 anni dopo, ultimo e unico sindaco di sinistra.
Dilaniato da divisioni interne, da veti incrociati e spiriti di vendette personali dentro i partiti e tra i partiti, il centrosinistra - non bisogna dimenticarlo - ha scelto il candidato vincente solo all'ultimo momento utile, quasi come un ripiego, dopo ben otto tentativi di altre nomination e dopo aver inseguito e bruciato un nome dietro l'altro.
Ce l'aveva in casa, il centrosinistra, l'unico candidato in autentica connessione sentimentale con la città, capace non solo di rimotivare ciò che era rimasto della sinistra sinistrata, ma anche di interloquire con segmenti ampi e importanti dell'elettorato di centrodestra. Eppure, l'aveva ignorato ed emarginato per mesi, recuperando quel nome in extremis, grazie solo ad una petizione, e salutandolo come uomo della provvidenza non tanto per combattere e vincere perché tutti a sinistra, a gennaio, davano per persa la sfida per Palazzo Carafa -, quanto per essere riusciti almeno a presentare un candidato di bandiera.
Per questo, il ribaltone di ieri è un miracolo politico. Non una sorpresa, perché da molti segnali e indicatori emergeva da tempo un diffuso sentimento di rivolta contro l'establishment politico e amministrativo. Ma un miracolo. Per il quale il disastrato centrosinistra - dove è già cominciata la corsa dei dirigenti, leccesi e baresi, a intestarsi senza alcun pudore la vittoria - dovrà ringraziare almeno tre persone.
Dovrà ringraziare, innanzitutto, Salvemini, artefice di una campagna elettorale intelligente, aperta e dialogante con tutti i pezzi della città. Il suo messaggio, ripetuto ogni giorno in tutte le occasioni, alla fine è passato: non è una scelta tra il bene e il male, non ci siamo noi e loro, non siamo una genia unta da una superiorità morale e culturale rispetto al campo avversario. Un linguaggio semplice e chiaro che ha convinto anche quei ceti emergenti prodotti negli ultimi anni dal cambiamento della città, ai quali non va bene più il mercanteggiamento personale dei servizi e dei diritti, e per i quali occorre un sistema di governo che garantisce i diritti e non li contratta per favori. Ma il messaggio di Salvemini è passato anche, e soprattutto, nell'elettorato del centrodestra (sarà interessante studiare i flussi), delusi da una gestione delle istituzioni a tratti bonapartista e padronale.
Non sappiamo ancora con precisione su quanti seggi Salvemini potrà contare in Consiglio e se disporrà di una maggioranza autonoma per governare. Di sicuro, nel breve periodo, i problemi e le difficoltà potranno venire più dal suo campo, con una raffica di richieste di riconoscimenti di ruoli e nomine, che da quello avversario, impegnato verosimilmente già da oggi in una durissima resa dei conti interna, con scontri duri e laceranti. Vecchia regola della politica (e non solo): la vittoria unisce, la sconfitta lacera. Una cosa, però, è certa: la connessione sentimentale del nuovo sindaco con la città non si esaurirà in tempi brevi solo se riuscirà a prosciugare e a chiudere quella camera di compensazione, dove da sempre risiede il potere a Lecce, e dove vincenti  e sconfitti, tra scambi e favori, hanno sempre trovato una soddisfazione delle proprie esigenze e puntualmente contrattato i propri interessi. È la principale aspettativa non solo della sinistra militante, ma anche di quei segmenti ampi dell'elettorato di centrodestra che hanno voluto dare un segnale in queste elezioni, al primo turno e al ballottaggio, staccandosi dal sistema dapprima con una critica politica e poi attraverso il voto. Salvemini e Delli Noci al primo turno hanno intercettato questo sentimento diffuso nel cosiddetto ceto medio riflessivo, che si è incrociato con il diffuso bisogno di regole e di funzionamento dei servizi proveniente dai ceti emergenti.
Il centrosinistra dovrà, poi, sicuramente ringraziare Alessandro Delli Noci. Senza la sua scelta di rottura del fronte del centrodestra, coraggiosa quanto azzardata, staremmo oggi - anzi già quindici giorni fa - raccontando un'altra storia. L'ex assessore ha dimostrato di poter contare su una rete diffusa di associazioni, trasversale e ricca di competenze. Ha sfidato e incrinato un sistema di potere consolidato di cui aveva fatto parte, leggendo l'inquietudine e l'insoddisfazione che erano venuti maturando in quel blocco. La vittoria, perciò, è anche sua. E chi nel centrosinistra storce il naso, dovrebbe fare un bagno di umiltà e scrollarsi di dosso quell'insopportabile complesso di superiorità segnato dalla sola appartenenza. Se riscirà a dosare con intelligenza le sue pur legittime ambizioni, Delli Noci sarà destinato a giocare un ruolo importante nel futuro della città, e non solo della città.
Il centrosinistra dovrà ringraziare, infine, anche molti esponenti del centrodestra, la loro supponenza e la loro arroganza politica e intellettuale, la loro certezza che la città non si sarebbe mai rivoltata contro. E dovrà ringraziare, primo fra tutti, il sindaco uscente Paolo Perrone, che negli ultimi due anni ha commessi non pochi errori di analisi della fase e, dunque, di costruzione della prospettiva. Dopo il sondaggio (è bene ricordarlo: fatto su una campionatura di 600 persone) del Sole 24 Ore, che lo ha incoronato per un anno il sindaco più amato d'Italia, non è stato più lui per lucidità e lettura della città. Ha sottovalutato e, talvolta, deriso i venti diffusi di rivolta contro l'establishment locale. Ha accentuato la leadership solitaria, con una forte torsione verso la personalizzazione, ed è rimasto prigioniero delle logiche binarie amico-nemico e fedeli-traditori. Nel campo dei nemici e dei traditori, tutti coloro che osavano indicare criticità e problemi; nel campo degli amici, solo gli yesman che lo osannavano. E ha pensato, accecato da quell'illusorio e farlocco sondaggio, di poter disporre da solo delle chiavi del futuro di Lecce, immemore di ciò che era accaduto ad altri illustri predecessori. Basti qui pensare al suo amico ex sindaco di Pavia, Cattaneo, che da primo cittadino più amato d'Italia non riuscì nemmeno ad essere rieletto per il secondo mandato. Era da tempo che la città mostrava segni di insoddisfazione e di allergia verso il ceto di governo, pur riconoscendo che nei dieci anni di Perrone a Palazzo Carafa era stato compiuto un oggettivo e significativo balzo in avanti. Ma il sindaco ha ingaggiato una battaglia frontale contro l'informazione libera, etichettata come boicottatrice solo perché denunciava i problemi e i disservizi; ha indicato una rosa chiusa dei suoi possibili successori, che in realtà si limitava ad un solo nome; ha litigato con uno dei suoi giovani amministratori più promettenti, prima irridendolo, poi sottovalutandone il peso elettorale, infine etichettandolo come traditore seriale, categoria del tutto impolitica; ha pensato fino alla fine che la città fosse sempre e comunque con lui, dalla 167 ai salotti borghesi del centro storico, senza capire in tempo che un intero ciclo politico-amministrativo si era chiuso e aveva perso appeal tra i cittadini. Un gravissimo abbaglio politico, pagato a caro prezzo.
A Mauro Giliberti, invece, va riconosciuto l'onore delle armi. Si è battuto come un leone, soprattutto tra le belve della sua coalizione, e ha portato una ventata di freschezza nell'appesantito centrodestra locale. Quel 45,2% associato al suo nome, a fronte del 52% delle liste che lo sostenevano, avrebbe incrinato la fiducia di chiunque quindici giorni fa, soprattutto se non avvezzo alle dinamiche politiche e alle avvelenate manovre dei politicanti. E l'analisi dettagliata di quel voto disgiunto avrebbe sicuramente piegato le gambe e minato nel profondo l'autostima di qualsiasi candidato. Mauro Giliberti, no. Non solo non si è arreso, ma ha tirato fuori proprio in quelle ore tutte le sue doti di combattente, maturate e cementate negli anni della dura gavetta da giornalista, quando la meta appare sempre lontana e si è continuamente tentati dal gettare la spugna. È stato soprattutto lui, in quelle ore e in quei giorni successivi al primo turno, a sfidare lo sguardo deluso dei suoi, a sedare le prime avvisaglie da resa dei conti tra i maggiorenti della coalizione, pronti a rinfacciarsi le responsabilità del voto disgiunto e del risultato non proprio straordinario delle liste, almeno se confrontato con quello di cinque anni fa. Non poteva fare di più, soprattutto perché non poteva prendere nettamente le distanze dal governo uscente e presentare se stesso come alternanza. Dunque, chapeau!
Infine, i partiti. Escono a pezzi. Il Pd farebbe bene ora a utilizzare davvero il lanciafiamme per fare piazza pulita di tutte le incrostazioni e i veleni di personalismi, nessuno dei quali tra l'altro vincente. Il compito spetterà innanzitutto alla Bellanova: abbia il coraggio di aprire il partito alla società, faccia entrare nelle stanze del partito aria nuova e pulita. Quanto a Direzione Italia, parta anche dalle buone percentuali ottenute, ma avvii un profondo ripensamento del proprio modo di essere: non si può contestare a Berlusconi una gestione padronale del partito, imitandone però metodi e comportamenti. Primarie, progetti, circolazione delle idee, congressi veri. La nuova fase, aperta anche a Lecce, indica in modo chiaro questa rotta.
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