C'è sempre un giudice a Berlino (e per fortuna anche a New York)

Donald Trump
Donald Trump
di Roberto TANISI
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Lunedì 6 Febbraio 2017, 16:27 - Ultimo aggiornamento: 16:39
Ann M. Donnelly, Giudice distrettuale di Brooklin-New York, è uno dei sedici giudici americani che, con procedimento d’urgenza, hanno “osato” sterilizzare gli effetti del decreto emanato dal neo-Presidente Donald Trump, con cui si è voluto impedire ai cittadini di sette Stati (Iran, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan e Yemen) di entrare negli Stati Uniti: si tratti di adulti o di bambini, di uomini o di donne. In particolare, nella causa civile Hameed Khalid Darweesh contro Donald Trump, col suo provvedimento (rapportabile al nostro art. 700), la Donnelly ha “fatto divieto” al resistente (cioè al Presidente) nonché ai suoi funzionari e dipendenti, di “espellere gli individui con lo status di rifugiato” o i detentori di “valido visto per immigrati” provenienti dai sette Paesi sopra indicati.
Il giudice ravvisa “pericolo imminente di danno grave e irreparabile” per il diritto del ricorrente (e degli altri stranieri nella medesima posizione) di fare ingresso negli Stati Uniti, stente l’elevata probabilità di dimostrare “davanti a una giuria che le restrizioni previste dall’ordine del Presidente – ed altre simili – rappresentano violazione dei loro diritti per i principi, garantiti dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America, di assicurare ai soggetti medesimi un’efficace tutela giurisdizionale ed un equo processo”.
Una decisione indubbiamente coraggiosa, adottata nei confronti dell’uomo più potente del mondo, che dimostra, ove ce ne fosse bisogno, come in uno stato di diritto, in una democrazia rappresentativa, anche a forte connotazione “decisionista” come quella americana, sia fondamentale il primato della Costituzione rispetto a leggi o provvedimenti non sufficientemente meditati del potente di turno.
Una decisione, quella del giudice americano, che, in qualche misura, richiama alla memoria un articolo comparso tempo fa sul “Corriere della Sera”, per la penna di Pierluigi Battista, nel quale l’autore si doleva del “totalitarismo giudiziario”, identificato nella tendenza, a suo dire sempre più diffusa, che nelle democrazie occidentali spinge le magistrature a debordare dai propri compiti di stretta applicazione del diritto e a statuire su ogni aspetto della vita, così ponendo in atto una sorta di “giuridicizzazione radicale e totale dei rapporti sociali, politici, economici, antropologici (sic!) in cui si dibatte l’umanità”. Onde la domanda conclusiva dell’articolista (che sottende una risposta evidentemente negativa): “Vi sentite tranquilli nel mondo del totalitarismo giudiziario?”.
Battista, per meglio suffragare il proprio asserto, porta ad esempio la decisione di un giudice americano di mettere sotto processo la Apple perché un automobilista, utilizzando un’app mentre era alla guida della sua macchina, aveva provocato un grave incidente stradale; o quella di un giudice francese, chiamato a decidere se a un intellettuale è permesso di sottolineare i pericoli dell’islamismo, senza essere tacciato di “islamofobia”. Non mancano, ovviamente, esempi italiani: su tutti, la Corte Costituzionale, che delibera sulla materia elettorale, e la magistratura ordinaria, con le sentenze in materia di stepchild adoption o di eutanasia. A ben vedere, al di là del singolare accostamento degli esempi fatto dal giornalista, si tratta del tema, trito e ritrito, della c.d. “supplenza giudiziaria”.
Ora, affermare che in uno Stato di diritto ciascuno dei poteri debba attendere a quelli che sono i suoi compiti, senza ingiustificate invasioni di campo, mi pare una palese ovvietà; come è altrettanto ovvio che un potere che abdichi al suo ruolo, produce necessariamente un vulnus nell’assetto istituzionale. Quello che, però, non è condivisibile è il “non detto” (ma sussurrato o suggerito) di tali ragionamenti, e cioè che sia il potere giudiziario ad esorbitare arbitrariamente dai propri compiti. Allora, per restare alle domande poste da Battista con riferimento al nostro Paese (al di là della confusione fra giustizia costituzionale e giustizia ordinaria), credo sia lecito rispondere con altrettante domande: è colpa della Corte Costituzionale se la Politica, pur avendone ovviamente la possibilità, non ha avvertito la necessità di licenziare una legge elettorale che sia conforme a Costituzione (posto che la Consulta aveva già indicato, nella sentenza n. 1/14 riferita al c.d. “porcellum”, quali fossero i vizi da emendare e su quali direttrici muoversi)? È colpa della Magistratura se la Politica, nel licenziare la legge sulle unioni civili, non ha inteso (o potuto, o voluto) legiferare anche su una materia delicatissima come la c.d. stepchild adoption, lasciando la patata bollente nelle mani dei giudici, salvo dolersi poi delle relative decisioni? È ascrivibile alla Magistratura la mancanza, in Italia (a differenza del resto d’Europa), di una legge sul c.d. “testamento biologico”, sicché ai giudici sono necessariamente rimesse decisioni su casi delicatissimi che riguardano temi decisivi come la vita e la morte (qualcuno ricorderà i casi Welby ed Englaro, peraltro risolti con Sentenze di grandissimo rilievo, lodate anche in sede europea)? E si potrebbe continuare.
Allora, forse, una considerazione si impone: se la Politica abdica al suo compito, non si può parlare di supplenza dei giudici, perché, alla fine di tutto, qualcuno deve pur prendersi la responsabilità della decisione finale (“Ci sarà un giudice a Berlino”, si chiedeva il mugnaio di Potsdam). Piaccia o non piaccia, in uno Stato di diritto l’applicazione e l’interpretazione della legge competono al potere giudiziario. E si tratta di una funzione insostituibile. Basti ricordare che già Sant’Agostino individuava nella Giustizia l’elemento discretivo fra lo Stato e una banda di pirati. Anche in una società complessa ed in continua evoluzione, come quella attuale, compito del Magistrato (P.M. o Giudice) è – e resta – quello di essere custode della legge e tutore dei diritti dei cittadini (o, per usare la più suggestiva espressione di Vaclav Havel, essere il “potere dei senza potere”). Ma perché ciò accada, è necessario che il magistrato sia sempre indipendente ed autonomo dal potere politico. Come previsto, del resto, dalla nostra Costituzione. E come dimostrò di essere quel giovane Pretore di Firenze che, al Prefetto fascista che gli ingiungeva di mettere a disposizione il carcere mandamentale per detenervi i genitori dei giovani renitenti alla leva nella Repubblica di Salò, rispose: “Sono dolente non poter dare l’assicurazione richiesta. Il prestare le carceri giudiziarie per la detenzione di innocenti è atto contrario alla legge e al costume italiano. Dacché servo lo Stato nell’amministrazione della giustizia non ho mai fatto nulla che fosse contrario alla mia coscienza”.
Concludendo: forse Battista non si sentirà tranquillo “nel mondo del totalitarismo giudiziario”, ma nel mondo del “totalitarismo politico” è anche peggio: l’Italia ne sa qualcosa per averne fatto, in passato, dolorosa esperienza.
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