Il ritorno al passato non servirà a disinnescare il populismo

di Mauro CALISE
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Lunedì 23 Gennaio 2017, 15:54
Ora che la casa della democrazia si è svuotata, tutti vorrebbero chiudere la porta. Per riprendersi in qualche modo gli elettori, il «popolo» che – in gran parte – se ne è uscito seguendo le lusinghe e le urla dei vari pifferai magici. Ma è tardi. E ancora più difficile sarà cercare di recuperare il ritardo se le ricette per ristrutturare la stalla, e renderla nuovamente accogliente, sono le stesse con cui si è governato per cinquant’anni l’Occidente: più welfare, più mobilità, più eguaglianza. Che sembrerebbe, al momento, la sola litania che le classi (ex) dirigenti sanno recitare, spaventate che l’orda populista sfugga loro completamente di mano. Ma non è così – purtroppo – che funziona. Non è resuscitando le ricette dell’età d’oro dei partiti – e della democrazia occidentale – che riusciremo a riprenderci lo scettro che i leader venuti dal nulla si stanno apprestando a conquistare. E in America hanno già conquistato.
La ricetta della vecchia sinistra – e, in parte, dei popolari europei – non può più funzionare perché mancano i due propellenti con i quali è stata, per tanti anni, alimentata. Il primo sono le risorse finanziarie con cui lo Stato – e i governi alla guida – hanno potuto gestire il compromesso socialdemocratico su cui si è retta la legittimazione delle masse: voto in cambio di benessere.
Risorse figlie della stagione eccezionale di sviluppo seguita alla seconda guerra mondiale, nonché di un apparato pubblico – e di un’etica della cosa pubblica – forgiati, in un lavorio secolare, al servizio del bene comune. Di fronte al collasso epocale di questo trade-off che è alla base delle nostre democrazie, tutto quello che si riesce a dire è che occorre tornare a occuparsi dei bisogni delle fasce più deboli e del declino delle classi medie. Un obiettivo, sul breve periodo, concretamente irraggiungibile.
Anche perché – ed è il secondo fattore che alimenta l’ascesa dei leader populisti – il linguaggio con cui le oligarchie sotto scacco si rivolgono all’elettorato non ha più alcuna presa ideologica. I votanti sempre più emarginati sanno bene che non potranno tornare i miti – e i redditi – dei tempi d’oro. E infatti, i leader di maggior successo si guardan bene dal riesumarli. Il grillismo non fa riferimento ad alcun palinsesto ideale. È solo una reductio ad personam. Lo stesso grido «onestà, onestà» è più uno slogan che un convincimento, se è vero che gli scandali e gli arresti che hanno accerchiato la giunta Raggi non hanno minimamente scalfito l’iceberg del consenso ai Cinquestelle. Anzi, stando ai sondaggi, l’hanno visto addirittura levitare. Così pure, è irrilevante e ingannevole l’esercizio a decifrare il trumpismo come il ritorno dell’ideologia americana, quella doc della frontiera e del farwest al posto dell’obamismo rooseveltiano infiltrato dai circoli harvardiani. Togliete dalla scena il magnate abilissimo che è riuscito a coagulare – e ammaliare - un guazzabuglio di etnie e categorie le più disparate – e disperate – possibili, e vi ritroverete soltanto una piattaforma contraddittoria e ingestibile. Che Trump stesso, infatti, si diverte a smontare – e a rimontare – di ora in ora.
Trump e Grillo – come Salvini e Le Pen – non stanno vincendo perché interpretano domande che la sinistra ha abbandonato. Ma perché sanno sintonizzarsi con la pancia di un elettorato che non ha più alcuna voglia di affrontare ragionamenti troppo complicati, e tanto meno di tornare a sperare nel ritorno del bel tempo andato. Ben vengano le continue capriole, ed anche qualche capitombolo (come i tanti che Trump ha inanellato nella sua – apparentemente – disastrosa campagna elettorale). Ciò che conta è il legame fiduciario – istintivo e primordiale – che il leader riesce a instaurare. Come a suo tempo, anticipando il fenomeno del populismo personale, Berlusconi seppe creare e mantenere per un ventennio con una fetta consistente degli italiani.
Anche per questo si rivelerà illusoria la terapia che la nomenklatura partitica si sta affrettando a propinare all’Italia liberata del virus renziano. Un po’ meno di austerità (se si riesce), un po’ più di solidarietà (a parole) e una dose il più possibile massiccia di collegialità decisionale. Da sempre il refugium peccatorum delle elite che non sanno cosa fare (in inglese: che pesci pigliare). Ma la partita contro il populismo si vince solo con un leader capace di combatterla con le stesse armi. Carismatiche e comunicative. E inconfondibilmente personali. Può darsi che non ci siano gli spazi – e i tempi – per un ritorno di Renzi. E che gli tocchi saltare un turno. Ma più il nemico si avvicinerà alle porte, più diventerà evidente l’errore di cercare di ributtarlo indietro affidandosi alle liturgie del passato. Dio, si sa, acceca chi vuole perdere. Solo che questa volta, di mezzo, rischia di finirci il paese.
 
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