La velleità di sette città metropolitane di rappresentare l'intero Sud

Una veduta di Bari
Una veduta di Bari
di Adelmo GAETANI
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Giovedì 1 Giugno 2017, 17:37
Il vertice dei Sette Grandi di Taormina ha lasciato in eredità risultati politicamente modesti e un solco più largo tra le due sponde dell’Atlantico. Angela Merkel non ha esitato a buttare benzina sul fuoco delle polemiche con Trump, pur di espandere e rafforzare la sua leadership in Germania e in Europa in vista della prossima scadenza elettorale. Eppure, un po’ di prudenza non avrebbe fatto male, anche perché il G7 più che un soggetto politico decisivo per gli equilibri internazionali, appare un fantasma della vecchia alleanza occidentale contrapposta al blocco comunista e si presenta come un’entità depotenziata e pressoché inservibile alla luce dei mutati rapporti geopolitici globali. Le tradizionali foto di gruppo dei leader del G7 raccontano una storia che, allo stesso tempo, diverte e fa riflettere: tra i Grandi abbiamo visto in posa il premier del Lussemburgo, con tutto il rispetto per il Granducato, ma non c’erano i leader di Paesi strategici per l’economia e la politica del mondo come la Russia, la Cina e l’India, solo per citarne tre.

Allora, ha senso parlare ancora di G7 in un contesto globale che chiama in causa numerosi altri soggetti il cui contributo alla stabilizzazione internazionale, a partire dalla lotta al terrorismo, è ormai imprescindibile?
Ci facevamo questa domanda, consapevoli del rischio di mischiare “sacro” e “profano”, alla notizia di un incontro svoltosi lunedì scorso in quel di Messina, a rimorchio del Grande evento, pomposamente definito G7 delle sette Città metropolitane del Sud Italia (Messina, Catania, Palermo, Reggio Calabria, Bari, Napoli e Cagliari). L’obiettivo era quello di portare in sede di assemblea Anci un programma di sviluppo e aprire un confronto con il Governo nazionale per colmare il gap con il Centro e il Nord del Paese sui temi riguardanti i trasporti e i servizi con le relative pesanti ricadute negative sull’economia e sul turismo.

Intenzioni nobili e obiettivi condivisibili, se non ci fosse da chiedersi e chiedere perché mai della irrisolta questione meridionale debbano occuparsene le Città metropolitane e solo loro e non anche le altre Istituzioni rappresentative di territori semmai più popolosi e vasti.

Quali funzioni egemoniche, a prescindere da tutto, sono state riconosciute alle nascenti Città metropolitane, mentre venivano sterilizzate le Province?

Proviamo a dare una risposta a questo interrogativo calandoci nel caso Puglia e facendo riferimento ad alcuni dati Istat (1 gennaio 2016). La Puglia ha 4.077.166 abitanti, solo 1.263.820 risiedono nella Città metropolitana di Bari (ex Provincia), poco più di un quarto: perché lasciare a Bari l’incombenza di doversi occupare degli interessi dell’area jonico-salentina (1.788.961 abitanti, dei quali 804.239 a Lecce, 398.661 a Brindisi e 586.061 a Taranto), della Capitanata (630.851 abitanti) e della Bat (393.534 abitanti)?

È del tutto evidente lo squilibrio istituzionale e di potere che si è determinato con la contestuale disarticolazione delle Province periferiche e la promozione a livello di Città metropolitana dei capoluoghi regionali (in Sicilia ci sono altre città promosse in virtù dell’autonomia riconosciuta all’Isola). Così come sono evidenti gli effetti negativi - sul piano del peso politico, della distribuzione delle risorse e della loro gestione - che ricadano sui territori estranei al circuito delle Città metropolitane, istituzioni che hanno un senso quando si tratta di armonizzare il governo di metropoli come Roma, Milano con i loro popolosi hinterland, ma che negli altri casi diventano un mero strumento di potere che finisce col rendere irreversibili vecchi squilibri territoriali.

Le difficoltà che il Grande Salento incontra nell’affermare i suoi obiettivi nel campo delle infrastrutture strategiche e dei servizi innovativi sono anche conseguenza della progressiva marginalizzazione delle aree territoriali che non ricadono sotto la diretta influenza dei vecchi e nuovi centri di potere decisionale.
I casi delle superstrade fantasma Maglie-Leuca e Lecce-Taranto (Bradanico-Salentina) finanziate da decenni e mai realizzate, dei treni superveloci che spuntano e scompaiono nel giro di qualche mese, del trasporto ferroviario locale inefficiente, sono la dimostrazione di criticità che restano senza risposte anche a causa del ridotto peso politico delle Istituzioni territoriali in una regione, come la Puglia, che ha proprio nel Bari-centrismo la sua più evidente caratteristica. Raramente quella centralità escludente è stata percepita come un fattore di debolezza, il più forte impedimento all’affermarsi di una visione in senso tripolare (area barese, area jonico-salentina e area foggiana) delle politiche regionali come medicina migliore per favorire la crescita dei territori e di conseguenza dell’intero tessuto socio-economico regionale.

Se è complicato pensare che il piccolo Lussemburgo possa essere un punto di riferimento della politica internazionale, è altrettanto difficile credere che le Città metropolitane, soprattutto nella versione inflazionata maldestramente realizzata in Italia, possano rappresentare il principale soggetto istituzionale di quelle Autonomie che dovrebbero farsi carico anche della soluzione dei problemi del Mezzogiorno.
Davvero vasti programmi, come diceva il generale De Gaulle.

In realtà la strada giusta da percorrere è un’altra e passa dal riconoscimento istituzionale dell’identità dei territori - sotto il profilo storico e socio-economico - con lo sguardo rivolto alle Grandi province e dalle garanzie offerte loro con adeguati e moderni strumenti di governo.
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