I segnali di inquietudine del mondo giovanile

di Ferdinando BOERO
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Martedì 14 Febbraio 2017, 18:35
Gli studenti protestano a Bologna, la polizia carica, loro rispondono, caos nelle strade. I benpensanti si scandalizzano, i reduci del ’68 rivivono i vecchi tempi con nostalgia. Andate a studiare, dicono molti commentatori. A studiare, sì. Poi c’è il giovane che si suicida perché non trova lavoro, e ci sono decine di migliaia di giovani che hanno studiato e che devono emigrare all’estero. Dove trovano lavoro perché lì, loro che hanno studiato, servono. Se ne vanno perché qui non servono.
Andate a studiare! Già, e poi? Nelle campagne, intanto, ci sono gli schiavi. Schiavi di colori strani rispetto al nostro, ma se gli parli vien fuori che sono laureati. Ma non vanno a fare lavori intellettuali, come i nostri laureati. Fanno gli schiavi a raccogliere angurie e pomodori. Per gli schiavi il lavoro c’è. E poi c’è per i sottopagati, per i precari. Se non si produce così non si è concorrenziali, e così ecco che ci cinesizziamo nella produzione e nel lavoro. Pochi diventano molto ricchi e poi c’è una massa di sottopagati, ai quali viene concesso giusto il minimo per vivere. È sempre stato così, ci dicono. Non sanno bene cosa fare, i giovani. Stanno bene, ancora. Vivono delle risorse dei genitori, hanno qualcosa da perdere. Ma il tempo passa, si diventa grandi, i genitori muoiono, le pensioni non passano ai figli. E poi? I vescovi denunciano la tragedia. Ma chi vive lontano da questo, chi riesce a garantire un futuro ai propri figli attraverso una rete amicale, magari all’interno della politica o di qualche setta semisegreta, continua a non percepire fino in fondo il disagio.
Il disagio si presenta senza gentilezze. Per un pretesto assurdo (perché è giusto mettere i tornelli in una biblioteca, e controllare gli accessi) si scatena il finimondo. Il motivo vero non è nei tornelli, quello è solo un sintomo, la causa del malessere è l’assenza di prospettive future. E non basta usare termini esotici come jobs act, voucher, e altre insulsaggini per imbonire il volgo e farlo restare tranquillo. I giovani arrabbiati hanno votato in massa “no” al referendum. Hanno detto “no” a questo stato di cose; del Senato, del titolo quinto, del Cnel non gliene importa niente. Il disagio si manifesta in tanti modi. Chi si è suicidato per assenza di futuro è come i bonzi vietnamiti o tibetani che si sono dati fuoco per denunciare un intollerabile stato di cose. Chi fugge all’estero rinuncia al proprio paese e lo rinnega. Chi rimane e reagisce con rabbia per un nonnulla, per futili motivi, ci sta dicendo in un altro modo che così non può andare avanti. Che il paese sta diventando una polveriera. Anzi, lo è già, ed è un miracolo che i giovani col futuro rubato non abbiano ancora dato fuoco alle polveri. Dalla speranza in qualcosa che non arriva alcuni stanno passando alla rassegnazione, altri alla rabbia cieca. Che faranno poi? Venderanno la casa dei genitori, e poi? I luddisti distruggevano le macchine, all’inizio della rivoluzione industriale. Toglievano lavoro agli umani, le macchine. Le macchine ci hanno sempre più liberato dal lavoro, da quel lavoro mostrato da Chaplin in Tempi Moderni. Oppure quel lavoro lo fanno i cinesi. Liberi dal lavoro! E ora? Saranno tutti fini intellettuali, latinisti esegeti di epifanici prolegomeni di ontogenesi filogenetiche dei saperi collettivi? Come sono preoccupati i professori universitari perché questi giovani non parlano bene l’italiano! E i demografi li spronano a fare figli, preoccupati che la razza italica si estingua. C’è il mondo vero, oltre il naso.
Non ho soluzioni da offrire nello spazio di un editoriale, ma non capire che questo è il problema numero uno, e che non esiste un problema numero due, è sintomo di fuga dalla realtà, in quello che Pasolini chiamò il Palazzo. Questi giovani, perché non studiano e non vanno a lavorare? Già, perché non mangiano le brioches, se non hanno pane?, diceva la regina. Le hanno tagliato il collo.
 
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