Dalla Scu a Daniele: successi e amarezze di Cataldo Motta, il "giudice blindato"

Cataldo Motta
Cataldo Motta
di Renato MORO
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Giovedì 22 Dicembre 2016, 12:00 - Ultimo aggiornamento: 16:47

Quanta strada può fare, da queste parti, un giudice con un cognome simile alla marca di un panettone? Un Motta dovrebbe sentirsi a casa sua a Milano, a Cremona o al massimo a Bologna. A Lecce, nella Lecce che negli anni Ottanta mangiava il rustico allo Snack di via Trinchese, festeggiava i compleanni al Satirello e a TelelecceBarbano faceva cantare Cesare Monte, può durare un Greco, un Calò o al massimo un Longo.
Un Motta no. Non è un cognome adatto. Ve lo figurate un Motta seduto a un tavolo da Guido & Figli, insieme con altri magistrati e avvocati, assediato dalle signore ingioiellate e dalle zeta così dolci da rendere inutili le bustine di Eridania al momento del caffè?
Cataldo Motta non lo sa, o forse l’ha saputo strada facendo, ma quando conduceva le sue prime inchieste sulla criminalità nessuno dei cronisti avrebbe scommesso su un suo futuro nel palazzo di giustizia di viale De Pietro. Troppo diverso dai suoi colleghi più anziani, dai “signor giudice” che trattavano i giornalisti come alieni o, nel migliore dei casi, come testimoni di Geova che bussano a casa di un legionario di Cristo. Muto come un pesce sulle indagini ma pronto a parlarne se poteva farlo, ironico e accogliente in quella stanza che col tempo è diventata un museo di targhe e calendari in divisa. Facile al tu a doppio senso di circolazione. «Lasciaci un quarto d’ora soli nella tua stanza», gli dicevamo indicando la montagna di carte che di giorno in giorno si accumulava sulla sua scrivania. Lui rideva, incassava e reagiva: cacciava tutti, oppure - soprattutto quando erano presenti le colleghe - restava seduto anche se aveva un impellente bisogno di andare in bagno. Ma quando i fascicoli cominciarono a tracimare, occupando persino il davanzale e ogni possibile piano d’appoggio, lui si fece più diffidente. E se si allontanava anche per pochi secondi, ci pensava il fido segretario a sorvegliare.
Da quella stanza al secondo piano, che è stata per davvero la sua seconda casa negli ultimi decenni, è passata la storia criminale del Salento e di mezza Puglia. Lì dentro, e non nella stanza dei capi che l’hanno preceduto, sono nate le prime strategie di attacco alla Sacra corona unita. Lì è nato il pool antimafia prima ancora che un decreto legge, era il novembre del ’91, istituisse le Direzioni distrettuali. A dire il vero c’è anche chi ha pensato che proprio dal secondo piano del palazzo di giustizia – non certo dalla stanza di Motta - qualcuno telefonò ai giornali nazionali per avvisare che da lì a qualche ora ci sarebbe stato il primo blitz contro i clan della Sacra corona unita. Era il giugno dell’89. La mattina del 14, mentre centinaia di carabinieri e poliziotti erano ancora impegnati ad ammanettare mafiosi in pigiama e a tenere a bada mogli, amanti e mamme urlanti, Repubblica uscì con un titolo in prima pagina. La classica fuga di notizie, un “buco” indimenticabile per i cronisti locali. La sera precedente il portiere dell’Hotel President aveva telefonato in redazione, allarmato: «Ci sono giornalisti che hanno prenotato da tutta Italia, c’è anche la Rai… che sta succedendo?». Oggi penseremmo ad un educational, che poi sarebbe la vacanza scroccata dai giornalisti incaricati di convincere i lettori a fare la stessa vacanza però pagando profumatamente. In quei giorni, ovviamente, i pensieri furono altri e anche piuttosto irriverenti.
In una terra che vede aprire tavoli a destra e a manca per affrontare di tutto e non risolvere quasi mai nulla, c’è un tavolo che meriterebbe la pergamena di Cavaliere. È quello attorno al quale Cataldo Motta e Francesco Mandoi, i due sostituti usciti vittoriosi dal primo maxiprocesso alla Scu, si riunivano per esaminare i rapporti della Squadra mobile che a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta era diretta da Romolo Napoletano. Impermeabile beige inseparabile, fisico minuto e occhiali da intellettuale, il capo della Mobile sembrava uscito da un numero speciale del Monello o dell’Intrepido. Fece un lavoro di ricucitura che da solo riuscì a dimostrare ai magistrati l’esistenza di un vincolo associativo tra i criminali salentini. Grazie alle pattuglie dislocate nei luoghi strategici, Napoletano e i suoi avevano ricostruito i movimenti di decine di indagati incaricati di distribuire i soldi dell’organizzazione in modo da mantenere detenuti, latitanti e loro parenti. Un lavoro noioso, davanti al quale un Serpico avrebbe immediatamente presentato domanda di trasferimento a Catanzaro, ma indispensabile per incastrare boss e gregari. Una ragnatela che resse alle bordate della difesa nel primo e nel secondo maxiprocesso e che ancora oggi è utile per capire come abbia fatto a diffondersi una Scu nata – questo sì - tra l’indifferenza di una provincia all’epoca aggrappata all’illusione di essere un’isola felice e una inadeguatezza degli apparati dello Stato risolta solo quando la mafia salentina fu considerata - con ritardo - emergenza nazionale.
Prima che ciò accadesse, però, la cronaca dovette registrare a Lecce un attentato che distrusse mezza aula bunker, due bombe contro il tribunale, un paio di chili di tritolo davanti al portone del presidente della Corte d’Assise, una ventina di morti ammazzati – quasi tutti giovanissimi - e un ordigno che solo per pura coincidenza non provocò una strage facendo saltare i binari al passaggio del Lecce-Stoccarda, con oltre mille passeggeri a bordo. A Taranto si assistette ad una guerra tra clan che in una sola sera, quella del primo ottobre del ‘91, lasciò quattro morti sul pavimento di una barberia, mentre Brindisi subiva lo strapotere dei clan del contrabbando. «Questa magistratura sta davvero esagerando a perseguitare la povera gente – disse davanti alle telecamere il vecchio boss sospettato di essere il mandante dell’attentato al treno–. Lo Stato deve sapere che poi la gente, esasperata, reagisce». Come dire: c’è posta per voi, cari giudici. #Mottastaisereno, azzarderebbe ora qualcuno.
Del tutto sereno il procuratore non è stato mai, se è vero che nelle carceri di mezza Italia, dal profondo del 41bis, non manca chi gliel’ha giurata. Durante il primo maxiprocesso scoprirono che un boss leccese si era procurato persino una sorta di bazooka con cui attentare alla sua vita. Un’arma che avrebbe potuto colpire la sua finestra al secondo piano, o accartocciare la carrozzeria della Croma blindata con la stessa facilità con cui il grissino della pubblicità frullava il tonno. Scoprirono anche, gli investigatori, che era stato progettato un agguato per sparare a Romolo Napoletano: i killer sarebbero entrati in azione in piazza Partigiani, lungo il percorso che il capo della Mobile di Lecce ogni mattina faceva per raggiungere la Questura da casa. Altri progetti di attentati, per fortuna non andati in porto, sono venuti alla luce in questi anni e le cimici che Cataldo Motta ha fatto nascondere nelle celle hanno dato la prova, se mai ce ne fosse bisogno, dei sentimenti di stima e affetto che nella Scu nutrono continuamente nei suoi confronti.
Del resto lui non ha mai smesso di denunciarlo: la mafia non muore e quella salentina non è da meno. È viva ed è capace di colpire nonostante gli arresti e i processi succedutisi in questi anni. Si evolve, si rigenera, rimodula i suoi programmi, ha imparato a investire in attività apparentemente “pulite”, rivendica la “pari dignità” rispetto ad altre organizzazioni criminali, veste Armani e manda i figli all’università. Qualche volta mette persino piede in una libreria, ma sempre mafia è. Un messaggio, quasi un avvertimento, che Motta ha consegnato in questi anni a migliaia di studenti in un girovagare che nemmeno il più scafato dei candidati sarebbe capace di fare in campagna elettorale. Un messaggio spesso lanciato in solitudine, lontano dai riflettori. Lontano anche da una politica a volte pericolosamente ambigua nell’approccio a una realtà difficile da digerire o, nella peggiore delle ipotesi, in qualche modo contigua. Peccato, però, non poter contare ancora su sentenze definitive in grado di dirci - con la certezza che la verità processuale può trasmettere - se e quanto questa mafia abbia contaminato la politica nei livelli più alti di quello nel quale sguazza lo sbruffone di turno, le pubbliche amministrazioni, il mondo delle professioni e dell’imprenditoria. Sospetti tanti. Coltelli affondati nelle piaghe anche, ma spesso forieri di inchieste abortite strada facendo o bocciate da sentenze assolutorie. A questo deve aver pensato a lungo, Cataldo Motta, nelle serate passate in casa a curare la sua collezione di trenini elettrici.
Daniele, tre anni appena, sulla foto che ha fatto il giro d’Italia appariva come un bimbo pacioccone, cresciuto anch’egli a botta di omogeneizzati e fruttoli vari e ipercoccolato come tutti i figli unici. È quello, per Motta, il volto della sconfitta. Daniele Gravili giocava nel giardino di una villetta a Torre Chianca la mattina del 12 settembre del ’92. Papà e mamma in casa, a preparare le valigie per il ritorno in città dalle vacanze. Con i suoi tre anni e la voglia innata di scoprire nuovi orizzonti si fece avvicinare dal Mostro che lo portò in spiaggia. Lui non capiva, ma cominciò a piangere e urlare e così, mentre lo violentava, il Mostro spinse la testa contro la sabbia, soffocandolo. Morì poche ore dopo in ospedale. Del pedofilo assassino non si è mai saputo nulla. Una sconfitta per la giustizia. Cataldo Motta lo va ripetendo da quando i fascicoli dell’inchiesta, contenenti decine di esami del Dna e decine di verbali di interrogatorio, hanno preso la strada senza ritorno dell’archivio. Quel Mostro o è morto di vecchiaia oppure è ancora vivo e forse sta leggendo queste righe. Mai pentito. Mai un errore e chissà se e quante volte è tornato su quella spiaggia. Per il piccolo Daniele né vendetta, né giustizia. Con le tecniche investigative di oggi, con la tecnologia che abbiamo ora a disposizione, forse sarebbe andata diversamente.
È la spina nel fianco di un procuratore che ha vissuto più di trent’anni della sua vita affiancato dagli angeli custodi che al posto delle ali e dell’aureola hanno giubbotti antiproiettile e mitra M12. Non c’è leccese che non conosca le transenne di via di Porcigliano, che non si sia imbattuto nella sua scorta. E non c’è leccese che non si sia mai chiesto dove vada, Cataldo Motta, quando esce al volante della sua Ferrari. Quanto corre e come faccia la scorta a stargli dietro con le Subaru, le Bmw o le vecchie Lancia che certo non brillano come i gioielli del Cavallino rampante. Un cedimento alla passione per chi non può permettersi nemmeno una visita al Bricocenter senza due tizi armati che ti seguono e scrutano tra un Black & Decker e una confezione di Fisher. E se qualcuno pensa che sia una passione maturata in un’età non più giovanissima, si sbaglia di grosso. Quel pomeriggio che i medici legali erano impegnati nell’autopsia sui resti carbonizzati di Marcello Greco, il proprietario del Politeama di Lecce sequestrato e ucciso nel maggio dell’89, Cataldo Motta giunse nel piazzale del cimitero alla guida di una fiammante Alfa 33 rossa “Quadrifoglio verde”. Gomme larghe, cerchioni in lega, spoiler e rombo con risucchio compresi. Piccolo capriccio per un giovane piemme che da lì a poco avrebbe proseguito e concluso la sua carriera a bordo di noiose berline blindate. Tutta “colpa” della Scu.
 

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