Tempa Rossa, Renzi difende l'emendamento

Tempa Rossa, Renzi difende l'emendamento
di Francesco G.GIOFFREDI
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Lunedì 4 Aprile 2016, 15:28 - Ultimo aggiornamento: 16:01
Alla luce del sole. La polpa del ragionamento di Matteo Renzi è tutta qui: l’emendamento che ha “piallato” la strada al giacimento Tempa Rossa in Basilicata e alle opere (oleodotto e sito di stoccaggio) a Taranto «è mio, l’ho voluto io», come sempre il premier ha spiegato. «Ho scelto io di fare questo emendamento. Lo rivendico con forza. L’idea di sbloccare le opere pubbliche e private l’abbiamo presa noi. La rivendico, per Tempa Rossa così come per Pompei, per esempio». Insomma: questione di metodo sprint, decisionista, da rottamatore. Ma che nel caso del bacino petrolifero lucano, e della dorsale di collegamento tarantina, rischia di far barcollare, o quantomeno caracollare per un po’, il governo. A In mezzora - su RaiTre, intervistato da Lucia Annunziata - il presidente del Consiglio si batte come un leone, provando a marcare la distanza col passato (nell’approccio operativo e nella volontà di spazzar via ogni ombra, e le dimissioni del ministro Federica Guidi «dopo una telefonata inopportuna» lo dimostrerebbero), difendendo l’esecutivo «il cui comportamento è impeccabile e specchiato» e mandando messaggi ai naviganti. Le opposizioni, ma anche la minoranza interna del Pd e - velatamente - Michele Emiliano, il governatore pugliese che bombarda il palazzo renziano.
 
Sul caso Tempa Rossa Renzi non accenna il dribbling in bello stile, ma carica a testa bassa accollandosi responsabilità politiche. O addirittura rivendicandole sin dall’esordio: «C’è il presidente del Consiglio che è coinvolto, se questo è il tema», e cioè se c’è da capire da dove sbuchi fuori l’emendamento alla Legge di stabilità del 2015 che ha incanalato verso un buon esito l’iter autorizzativo di Tempa Rossa: prima presentato nell’ottobre 2014, poi scomparso, infine riapparso con la Legge di stabilità edizione 2015. La norma assimila alle opere strategiche, “le opere e le infrastrutture necessarie al trasporto, allo stoccaggio, al trasferimento degli idrocarburi in raffineria, alle opere accessorie, ai terminali costieri e alle infrastrutture portuali strumentali allo sfruttamento di titoli concessori, comprese quelle localizzate fuori dal perimetro delle concessioni di coltivazione”: tradotto, vige il regime di autorizzazione unica ministeriale, in grado di superare il dissenso delle Regioni.
E peraltro, l’emendamento ha sbloccato proprio il tassello tarantino, perché “opere accessorie” sono quelle di stoccaggio progettate nel porto jonico.

Ma Renzi non ci sta, perché l’unica pietra d’inciampo è la «telefonata inopportuna» di Guidi al suo compagno Gianluca Gemelli, ora indagato e all’epoca coinvolto imprenditorialmente nell’affaire Total-Tempa Rossa. «Ci dicono - spiega il premier - che siamo quelli delle lobby quando noi abbiamo fatto la legge sui reati ambientali, l’Anac di Cantone, le pene per il voto di scambio. Dire che noi siamo quelli delle lobby a me fa, tecnicamente parlando, schiattare dalle risate». E ancora: «Non è l’emendamento in sé il problema, ma se qualcuno commette atti illeciti. Se ci sono opere, non vanno bloccate le opere, se qualcuno ruba va bloccato il ladro. Rivendico con orgoglio di aver sbloccato, in modo corretto e impeccabile, un progetto che era fermo dal 1989. Se poi qualcuno ha commesso illeciti ne risponderà. Ma noi siamo convinti di ciò che stiamo facendo e non ci fermeremo davanti a chi dice sempre e solo no. E per adesso, dopo 27 anni, da Tempa Rossa non è stato tirato fuori un goccio di petrolio perché le autorizzazioni sono state rinviate come spesso succede in Italia». E s’offre, «anche subito», d’essere ascoltato dai pm, il premier. Che aggiunge: «C’è un’indagine da mesi? E noi non lo sapevamo. C’è la separazione dei poteri. Una cosa è l’indagine giudiziaria che io non devo sapere, perché non devo essere messo a conoscenza delle indagini. E dico ai pm: lavorate».
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