Ricordate? L’euro salterà, e con l’euro si disintegrerà l’Europa. L’Italia seguirà le orme della Grecia, il suo fallimento sarà inevitabile e il declino del suo apparato produttivo irreversibile. Il Mezzogiorno esploderà con un tasso di disoccupazione così alto e con la chiusura delle ultime fabbriche esistenti. La globalizzazione sta producendo soltanto squilibri e insostenibili diseguaglianze, facendo diventare i poveri sempre più poveri e i pochi ricchi sempre più ricchi. Il nostro Paese sarà invaso da milioni di migranti che ruberanno terra, pane e futuro ai nostri figli. L’intero pianeta imploderà sotto i colpi dell’inquinamento ambientale che ha già stravolto clima, stagioni e coltivazioni. E fermiamoci qui per non rinvangare quella lettura ansiogena di fatti e avvenimenti che per troppi anni ci ha inquietato il giorno e anche la notte.
E l’Italia? Quell’Italia, uscita profondamente spaccata cinque anni fa dalle urne nel pieno della bufera recessiva, considerata dai più ingovernabile e destinata a soccombere secondo molti commentatori e frequentatori fissi dei talk show? È ormai da più di un anno che i dati statistici dei principali indicatori economici e sociali del Paese, dopo un durissimo triennio di spirale recessiva, sono passati dal segno fortemente negativo a quello moderatamente positivo. Ora anche la severa e asettica euroburocrazia di Bruxelles lo ammette. Il Pil è tornato a crescere dopo ben dodici trimestri, il tasso di disoccupazione è nei fatti in diminuzione, la produzione industriale fa registrare segni di vitalità anche se non tutti i mesi, la domanda interna e l’export sono in evidente ripresa, la fiducia delle famiglie e delle imprese in costante aumento. Finanche nel Mezzogiorno emergono diffusamente segnali che lasciano sperare in un aggancio della ripresa che, a livello nazionale, è già una realtà acquisita. Eppure, restiamo ancora immersi nella morsa del racconto della sfiducia universale e dell’infelicità collettiva.
Alla diffusione di ogni dato positivo, quasi come se fosse una iattura, si cerca subito il controcanto, l’immancabile avversativo, quel famoso
Si dirà: tutta colpa di chi opera nel mondo dell’informazione, nei vecchi come nei nuovi media, dove si conosce bene il principio del “male più forte del bene” e lo si maneggia con grande cura per attirare l’attenzione, per ottenere visibilità, per inseguire vendite, audience e contatti. Troppo semplice, anzi semplicistico per essere vero, se non addirittura fuorviante. Anche nel mondo dell’informazione, piaccia o no, vige la legge della domanda e dell’offerta. Senza dimenticare che la narrazione del peggio e il racconto di scenari apocalittici non scorrono soltanto nelle penne dei commentatori o nelle parole degli opinionisti dei talk show.
Il racconto dell’infelicità collettiva, la semina della paura e il disegno di scenari apocalittici, a differenza del passato, sono diventati incubatori di culture e leadership politiche, nazionali e locali, di partito e finanche di governo. Il che vuol dire che l’offerta di quel racconto risponde ad una domanda diffusa. Se i destinatari di quel messaggio e di quell’offerta tendono a non diminuire, anche di fronte ad un miglioramento oggettivo delle condizioni economiche e sociali generali, vuol dire che siamo in presenza di un largo contrasto tra la realtà percepita e la realtà vissuta, tra ciò che si sente e ciò che si è (o si ha). È questo contrasto che merita di essere compreso e approfondito. Al di là della propaganda politica di chi è al governo, ed è spinto per ruolo a professare ottimismo, e di chi è all’opposizione, che invece è portato a delineare scenari cupi, quel contrasto sta diventando la cifra dei nostri tempi. Storici. Politici. Economici. Sociali. E non dipende soltanto dal comportamento dei media, dalla loro propensione a raccontare più il male che il bene.
Il fatto è che il male risulta ancora più forte del bene nei passaggi d’epoca e nel corso delle evoluzioni delle crisi sistemiche, nei periodi di lunghe e travagliate transizioni da un’era all’altra, quando disancorate sono le vecchie certezze, ma non ancorate sono le nuove. In questo caso, complice l’horror vacui e complice anche la memoria che con lo scorrere del tempo si rivela inevitabilmente ingannatrice, diventa forte - quasi un rifugio, ecco la “retrotopia” baumaniana - la spinta a ideologizzare i tempi perduti e a scambiare il passato come il migliore dei mondi possibili. Il presente viene percepito peggiore del passato. E, soprattutto, il futuro viene previsto peggiore del presente. Proprio questa spinta ci porta, inconsapevolmente, ad accentuare quel poco razionale meccanismo - studiato nei dettagli dal recente premio Nobel per l’economia Richard Thaler - in base al quale “quando perdiamo qualcosa, l’emozione (negativa) è molto più forte e prolungata di quando guadagniamo qualcosa”. E ciò risulta ancora più vero se la contabilizzazione tra perdita e guadagno è soltanto individuale e materiale.
Nel passaggio d’epoca siamo rimasti orfani dei grandi soggetti collettivi che - anche nei momenti di grande crisi, come le guerre - facevano comunità inseguendo sogni e ideali, non di rado aberranti, certo, ma propellenti di tensioni comunque positive verso il futuro. Nel nome di sogni e ideali si chiedevano e si ottenevano anche durissimi sacrifici, con il giusto mix tra interessi particolari e interessi generali. Al tempo stesso, l’avvenuto divorzio tra politica e potere, imposto dalla globalizzazione, ha fatto diventare ognuno di noi ancora più solo, più debole, più insignificante rispetto anche al proprio destino. E, dunque, più pessimista, più infelice, più melanconico. Sta qui la chiave del contrasto tra realtà percepita e realtà vissuta. Sta qui il nodo che produce l’infelicità collettiva, nonostante il Pil, la resurrezione dell’euro, la ripresa dei consumi. Il passato non può ritornare e sarebbe schizofrenico rincorrerlo come migliore dei tempi possibili. Ma dal passato possiamo imparare molto. Solo l’orizzonte del sogno, solo la tensione per un ideale può spezzare le gabbie della solitudine, sconfiggere la sfiducia universale, spingerci a sfidare il futuro insieme, senza temerlo come peggiore del presente. E prosciugare quella schiera di apocalittici e profeti di sventura che con la narrazione del peggio continuano a costruire fortune. Personali e politiche. Speriamo, almeno, non di governo.