Interviste/ De Mitri, il pittore dell'arte sacra: «Ho illustrato il libro del Papa»

Luigi De Mitri
Luigi De Mitri
di Adelmo GAETANI
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Domenica 17 Giugno 2012, 20:25 - Ultimo aggiornamento: 29 Giugno, 18:36
LECCE - Gi a 3-4 anni ero attratto dal disegno e dalla pittura, forse perch anche a mio padre, Lucio, piaceva dipingere.
Luigi De Mitri, nato a Squinzano 69 anni fa, riporta all’infanzia e alla famiglia la sua passione per l’arte. «Purtroppo - racconta il pittore salentino - ho conosciuto mio padre solo attraverso i suoi dipinti: morì in un incidente ferroviario, prima che nascessi, nell’inverno del ‘42. Era un sottufficiale dell’Aeronautica e durante un trasferimento in treno ci fu un deragliamento e accadde la tragedia».

Infanzia difficile, la sua?

«Sì, ma c’era mio fratello Giuseppe di 4 anni più grande con il quale giocavo e mia madre, Anna Miglietta, che faceva di tutto per farci stare bene. In seguito ad una malattia, lei ci lasciò quando avevo 15 anni. Fu un grande dolore, ma anche un momento di maturazione: ormai il futuro dipendeva solo da me».

Ebbe modo di mettersi in mostra durante le Elementari?

«Ricordo che al secondo anno la maestra Balzanelli mi chiese di dipingere una Madonna sulla lavagna. Cosa che feci salendo sulla sedia. Rimase colpita dal disegno: chiamò due bidelli e li pregò di portare in giro per le classi la lavagna. Per me fu una grande spinta».

Ormai si sentiva un pittore?

«Diciamo che mi piaceva solo disegnare, a studiare non ci pensavo proprio. In terza elementare cambiò tutto per merito del prof. Centonze. Mi chiamò e disse: “Tu hai un talento, ma se vuoi diventare artista devi studiare, altrimenti diventi un tintore”. In quel momento cambiò la mia vita: iniziai a studiare e non ho più smesso».

Finite le elementari, medie inferiori e superiori all’Istituto d’arte di Lecce.

«Al “Pellegrino” ci arrivai per caso, non sapevo neanche della sua esistenza, e mia madre mi aiutò a fare quello che desideravo. Sono stati anni decisivi per la mia formazione artistica e umana, anche grazie a insegnanti preparatissimi dei quali conservo un ricordo indelebile. Per andare avanti dovevo prendere la borsa di studio e al secondo anno delle Superiori vinsi anche il Premio come miglior alunno dell’Istituto».

Preso il diploma?

«Mi iscrissi all’Accademia delle Belle Arti, ci rimasi due anni, poi lasciai. Non mi piaceva la concezione pittorica che dominava quell’ambiente, mi sentivo soffocato, avevo di esprimermi seguendo la mia personalità».

Che cosa cercava?

«Avevo studiato bene la Storia dell’arte e la conoscevo. Cercavo una mio percorso artistico e lo trovai nella tecnica dello sfumato che fondeva impressionismo ed espressionismo. Dai 20 ai 30 anni ho dipinto in quel modo. Era come vedere le figure attraverso un vetro smerigliato, in modo da comporre una realtà ideale, non tanto oggettiva. Era un modo per interpretare la realtà, mostrarla a partire dalla mia sensibilità di artista. Con questi quadri ho vinto premi e fatto mostre dappertutto. E’ stato il mio inizio, un modo per essere me stesso, anche a dispetto delle mode pittoriche in quegli anni imperanti».

Dopo questa prima fase?

«Sono passato ai riquadri, conservando, come sempre, la figura al centro del mio interesse artistico. Nello stesso periodo iniziavo a dipingere le prime chiese con la tecnica dell’affresco, che ho dovuto studiare a fondo, confrontandomi con i grandi spazi e con le difficoltà che ne derivavano».

Grandi spazi, quanto?

«Posso ricordare alcuni lavori: il Carnevale in Paradiso nell’oratorio di Giuliano (Leuca) che misura 18 metri per 4; i Martiri nella parrocchia di Maria Ss. Immacolata di Otranto 18 per 4; il Cristo pantocratore a Corato 12 per 3,5».

Il suo sguardo di artista si è anche concentrato sul sociale.

«Ho voluto occuparmi dei cosiddetti degli ultimi, come gli immigrati, e degli “invisibili”. La recente mostra sui “Barboni della stazione Termini” è nata da una precisa presa di coscienza. Ci sono persone che restano ai margini della società e pochi si sentono in dovere di venire loro incontro. L’arte può descrivere, sensibilizzare, denunciare. Bisogna capire che quanto è successo a qualcuno può accadere a ciascuno di noi. Da oltre sei mesi dipingo nella chiesa di Santa Giacinta, all’interno del Centro direzionale della Caritas di Roma guidata da mons. Enrico Feroci e presente sul territorio con oltre 80 punti di assistenza. Lì sono entrato in contatto con persone in difficoltà: ci sono laureati, altri che avevano un buon livello sociale, eppure adesso devono chiedere aiuto per sopravvivere. Per fortuna, ci sono strutture come la Caritas che assicurano pasti, ricoveri e assistenza anche sanitaria a quanti ne hanno bisogno. E sono sempre di più».

L’arte sacra è al centro della sua attività. Perché?

«Ho sempre avuto come punto di riferimento i dipinti di mio padre che erano solamente sacri. Alcuni pensano, soprattutto nell’attuale contesto umano e culturale, sempre più distante dalla spiritualità della vita, che l’arte sacra sia qualcosa del passato e in più che sia anche banale, facile».

Invece?

«Invece è di una difficoltà enorme e questo lo si evince dalla storia dell’arte. La rappresentazione delle figure sacre ha sempre suscitato un grande dibattito, perché il riferimento è al mondo trascendentale, all’interno del quale le figure devono vivere, seppur al di fuori della loro oggettivazione. Non è esattamente un’operazione semplice, come qualcuno può far credere».

Si ispira pensando ancora a suo padre?

«Questo sì, ma devo dire che quando mi trovo di fronte ad un muro bianco e devo dipingere un soggetto sacro avverto un fascino particolare, come se qualcuno si impossessasse della mia mano e la guidasse. Quando il lavoro è finito, guardo il dipinto e mi faccio il segno della Croce. Certamente è l’uomo, non l’artista, che reagisce in questo modo».

Ha illustrato un libro del Papa, com’è successo?

«Era la fine del 2008 e mi trovavo nelle Librerie Paoline di Lecce. Vidi un libro scritto dal cardinale Ratzinger, “Cercate le cose di lassù”. Lo acquistai, se ricordo bene costava 8 euro, e iniziai a leggerlo. Erano riflessioni brevi, questo mi dette l’input. In quel periodo pensavo a disegni piccoli, dopo rappresentazioni dalle misure enormi, ero incuriosito dalle miniature medievali. Intanto il libro mi appassionava per il suo linguaggio semplice e profondo, ma anche per l’argomento che affrontava: venivano spiegate le feste liturgiche durante l’anno solare, da quelle naturali, a quelle pagane, a quelle cristiane. Pensai che le miniature potessero essere la traduzione pittorica di quel linguaggio. Così decisi di illustrare il libro».

Com’è riuscito a farlo stampare dalla Libreria Editrice Vaticana?

«Non è stato semplice, ci sono voluti mesi di dialogo e ho potuto contare sul sostegno, prima del teologo Gianni Gennari e poi dello stesso direttore della Lev, don Giuseppe Costa che ha deciso di pubblicare il libro in edizione pregiata. Naturalmente, non senza l’assenso del Santo Padre. Il libro va bene e si pensa di stamparlo anche in spagnolo e tedesco».

Il 14 marzo scorso ha presentato il libro al Papa. Ci racconti?

«E’ difficile parlare dell’emozione che ho avvertito durante l’udienza. Mi sono presentato con due cartelle: una conteneva l’originale dei disegni, nell’altra c’era una copertina speciale per il libro. Il Papa ha guardato tutto con interesse, poi mi ha toccato il braccio e per tre volte mi ha detto: “Grazie maestro”. Parole che mi hanno dato una gioia indefinibile».

Ha un sogno nel cassetto?

«Sì, vorrei lavorare ad un grande affresco nel Vaticano sulla figura di Benedetto XVI».

Forse è destinato a rimanere un sogno?

«Non è detto, anzi nutro una certa fiducia che possa concretizzarsi. Qualcosa si sta muovendo. C’è un contatto con il cardinale Gianfranco Ravasi, prefetto per la Cultura della Santa Sede. Si tratta di avere pazienza e a me non manca».

Su quale progetto è impegnato attualmente?

«Sto lavorando ad una nuova edizione illustrata della Divina Commedia, dopo quella di Gustave Doré. Quasi tutte le tavole sono pronte. L’opera dovrebbe essere arricchita dalle presentazioni del cardinale Gianfranco Ravasi, da poco anche presidente della Casa di Dante in Roma, e di Roberto Benigni. Ma, nutro una speranza».

Cioè?

«Sarebbe bellissimo se Benigni recitasse e incidesse qualche canto. Così si potrebbe allegare al libro illustrato un Cd con la voce del grande attore prestata alle suggestioni che solo la Divina Commedia sa offrire. Vedremo».

Quanto pesa per la carriera di un artista la marginalità del Salento?

«Non ho mai avvertito particolari difficoltà. Sono nato a Squinzano, vivo da oltre 40 anni a Lecce e ho in quel di Leuca un rifugio, che è anche una grande fonte di ispirazione. Considero queste località le mie tre patrie. Da giovane, ho avuto la possibilità di andarmene a Roma, ma ho lasciato perdere. Mi sento molto salentino, amo da morire questa terra. La amo per quello che rappresenta oggi e per quello che è stata nella storia. Non ho alcun dubbio: si può essere grandi anche restando nel Salento».

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