Visti da (molto) vicino/ Anna Grazia D'Oria
Mamma da premio: una “Strega” in casa

Anna Grazia D'Oria
Anna Grazia D'Oria
di Rosario TORNESELLO
7 Minuti di Lettura
Domenica 27 Aprile 2014, 19:50 - Ultimo aggiornamento: 4 Maggio, 19:49
In principio era il caos. Il vuoto che ora domina deve essere passaggio obbligato. La storia dei luoghi ha bisogno di tirare il fiato. Due poltrone rosse e poco pi in un salotto dove altro che racconti: da qui uscirebbero antologie. I rimandi trasmigrano nei simbolismi; troppo semplice cadere in tentazione. Perciò si resiste, non è il 25 aprile per caso. Per quanto quel rosso... Più intriganti, semmai, i giocattoli: ormai imperano nella vita nuova di questi ambienti, con unica abitante. Molti sono in vetrina, qualcun altro è sparso sulle mensole in cucina. L’affaccio su Lecce, al sesto e ultimo piano di un palazzo che sovrasta i Salesiani e inquadra dritto il campanile del Duomo, offre prospettive interessanti, su cui il sole pigro di un aprile scontroso traccia curve di luce. Il meriggiare è pallido, ma per i capricci del meteo è quantomeno assolto. Orsacchiotto sul parquet; racchetta poggiata al muro, una Maxima in legno e fodero con tasca sagomata per le palline. Vintage puro, tracce del tempo. A parlar di anni, però, si rischia il cortocircuito. Non che vada meglio con i nomi. Se dopo due ore di colloquio faccia a faccia ti senti chiamare Sergio e Sergio non sei, e già Franco sarebbe stato meglio, qualche problema ci sarà. Il vuoto può anche essere vuoto di memoria, per dire. Scherzo. Inquadrata la scena, rimane un dubbio: e i libri? dove sono ora i libri? Non viveva qui la donna da poco cooptata nell’élite selezionatissima dei giudici dello “Strega”?



Riproviamo. In principio il caos. Ci abitavano Piero Manni e sua moglie Anna Grazia D’Oria, molte cose assieme, quasi tutto: la famiglia, la politica, l’insegnamento a scuola, l’avventura editoriale. Adesso c’è rimasta la piccola di casa, Agnese (o Alessia, oppure Anastasia, fate voi: 48 ore di decantazione sono sufficienti per servire fredda la vendetta dell’onomastica). Giovane, nel senso che è del ’78. Su tutto il resto si va a spanne: i fratelli più grandi, Grazia e Daniele, nati abbastanza prima di lei. O il trasloco dei genitori a San Cesario, in una casa più comoda e capiente, una decina di anni fa o giù di lì. Solo le cifre tonde le danno tregua: il 30 maggio, spiega, festeggeranno i 30 anni della casa editrice, ai Cantieri Koreja, con Piero Dorfles e gli altri amici, più la riedizione del primo libro, “Segni di poesia. Lingua di pace”. Genitori e figli sono ormai gli unici soci e quasi tutti lavorano lì, tranne il maschio della discendenza (una volta era della partita anche il senatore Giovanni Pellegrino, con loro fondatore della casa editrice dopo lunghe conversazioni prima delle battute di caccia. Poi se ne uscì per puntiglio, pur essendo rimasta l’amicizia di sempre: da presidente della Provincia propose l’acquisto dei libri della Manni, ma Piero ci rimase male. Primo perché l’editoria non si aiuta così, disse; secondo perché sei socio. E Pellegrino abbandonò l’impresa). Una storia cominciata proprio qui, in questo appartamento che era alloggio, rifugio, ritrovo, simposio e redazione. Casa editrice, insomma. Più che una ragione sociale, un gioco di parole: casa i muri; editrice lei, la grande di famiglia. Di tutto è rimasta traccia in una foto in bianco e nero che Agnese custodisce in cucina - padre, madre e il telefono saldo in pugno - una sorta di reliquia considerata l’avversione della nuova padrona di casa per le autocelebrazioni formato polaroid. Sulla carta d’identità dei tempi moderni, Facebook insomma, al posto del suo volto troneggia un fumetto. Ecco.



In principio soggetto, verbo e complemento oggetto. Combinati ad arte. Una rivista, “L’immaginazione”, fondata da Anna Grazia col marito sulle ceneri del “Pensionante de’ Saraceni”, curato con Antonio Verri, e poi tutto il resto. «Io ero piccola quando in questo salotto era tutto un tramestio», racconta Agnese. Dopo gli studi a Bologna e lo stage al “Mulino” è rientrata nel Salento per dare una mano ai suoi. «Qui si scrivevano a penna gli indirizzi cui spedire la rivista, si lavorava alla stesura dei testi, c’era un viavai di ragazzi che collaboravano alle pubblicazioni e poi loro, i migliori di un’epoca che non tornerà: passavano e lasciavano il segno». Il fermento di una stagione della letteratura italiana colato a caldo nelle fondamenta di un’avventura: Paolo Volponi, Edoardo Sanguineti, Franco Fortini, Maria Corti, Luigi Malerba, Alfredo Giuliani e via dicendo. Riferimenti importanti, a partire dal Gruppo 63, la neoavanguardia letteraria esplosa a Palermo e di cui molti di quei nomi facevano parte insieme con altri, tra cui Umberto Eco che ora la D’Oria ritrova tra gli “Amici della Domenica”, i giurati del Premio Strega. La foto del Gruppo è alle sue spalle, in ufficio, nella sede di San Cesario. Assieme ad altri snodi cruciali: il convegno su Aldo Palazzeschi, la foto con Yasser Arafat. Per ognuno un racconto. Palazzeschi, intanto: «Mamma ha curato un’importante bibliografia delle sue opere, nel 1982. Di fatto resta un cantiere aperto. Quando non viene in ufficio puoi star certo di cosa stia facendo: o aggiorna l’opera sul suo autore preferito o completa l’archiviazione dei libri che custodisce con cura». E poi l’incontro con il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina: «Primi anni del 2000. Mamma e papà non erano nuovi a iniziative di questo tipo. Erano già andati a portare degli aiuti agli zapatisti del subcomandante Marcos per l’insurrezione nel Chiapas. Da Arafat arrivarono con un’organizzazione di Padova. Quella volta il capo dell’Olp quasi profetizzò la propria fine: quale attentato? - disse - la morte arriverà per mano amica». Se ne andò poco dopo.



L’impegno politico innerva la vita di famiglia. «Papà e mia sorella si sono cimentati con la militanza attiva. Mamma l’ha declinato diversamente: puoi far valere le tue idee nella vita di tutti i giorni». Come elemento naturale. I genitori hanno vissuto il ’68 da laureati, a Lecce, ma non lo hanno mitizzato. «Un fenomeno molto formativo ma naturale - spiega Agnese -. Così ce lo hanno raccontato e trasmesso. Nulla di straordinario, insomma». E con identico spirito la madre ha intrecciato il lavoro e l’insegnamento, anche in posti difficili come il carcere, con le incombenze familiari. Niente baby-sitter né robuste balie: «Lei è riuscita a essere sempre presente, pur essendo irrefrenabile. Perché è stata molto mamma, dialogo aperto e mai severa, senza rinunciare a nessuna delle sue passioni, senza mai venir meno ai suoi doveri. E i luoghi in cui erano commissari esterni negli esami di maturità diventavano anche le località delle nostre vacanze estive. Ancora oggi che potrebbe risparmiarsi, e anzi dovrebbe per via di qualche acciacco, è lì a lavorare più di tutti: legge i manoscritti, dirige la rivista. E tutto con grande umiltà. Quando un autore non le fa vibrare le corde neoavanguardiste lo passa a noi giovani: “Valutate voi”, dice. È una tosta, fa fatica a stare seduta: la sua idea del lavoro come passione è adesso la mia stessa idea. E gliene sono grata».



Ora lo “Strega”. Scelti i dodici finalisti, si va all’ulteriore cernita per i cinque tra cui individuare l’eletto, il vincitore. Si dice ci siano già nome e cognome: Francesco Piccolo. Si vedrà. Fosse stato per lei, non avrebbe fatto vanto della nomina. Ma in famiglia hanno raggiunto un valido compromesso. Da quando il premio esiste (1947), Anna Grazia D’Oria è la quarta salentina chiamata in giuria dopo Rina Durante, Oreste Macrì e Corrado Indraccolo. Un po’ timida e un po’ riservata lei, la signora “comodini”. In casa l’apostrofano così: dove c’è spazio infila un contenitore in cui raccogliere di tutto, dai vestiti agli oggetti. «Ma il suo non è shopping compulsivo. È cura delle cose: le compra, le recupera, le trova».



In principio era il caos. Anche troppo. In quella casa scaffali e volumi dovunque, al di là delle persone. Saggi e romanzi. Poesia e prosa. Troppa grazia, in ogni senso. Le crepe nei muri hanno imposto una scelta drastica. «Mio padre era per regalare tutti quei tomi. Mia madre no». Il trasloco a San Cesario è stato un atto d’amore per i libri. Ora sono lì, occupano la tavernetta. Ecco dove stanno. Qui rimane il vuoto: una storia così non può che lasciare un’orma. Ancora ben impressa, lassù al sesto piano.











Visti da (molto) vicino: 25esima puntata.

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