Dal terremoto dell'Aquila agli Usa: inventore abruzzese progetta ventilatore senza effetti collaterali

Covid, inventore pescarese sta studiando nel Usa un ventilatore senza effetti collaterali (Photo Credit to Penn State College of Engineering")
Covid, inventore pescarese sta studiando nel Usa un ventilatore senza effetti collaterali (Photo Credit to Penn State College of Engineering")
di Rosalba Emiliozzi
13 Minuti di Lettura
Martedì 12 Maggio 2020, 08:25
A trent'anni ne ha già fatta di strada Federico Scurti, ingegnere di Spoltore, in provincia di Pescara, volato via dall'Italia dopo la laurea e oggi ricercatore post dottorato della Pennsylvania State University con già tre brevetti depositati. Le sue invenzioni nel campo della superconduttività gli hanno permesso di vincere, lo scorso anno, il prestigioso premio per giovani inventori conferito da Lemelson-MIT con un premio di 15.000 dollari. E prima che il coronavirus scoppiasse, le sue ricerche, con altri due colleghi medici, erano indirizzate su un ventilatore non invasivo per aiutare i pazienti nella respirazione senza gli effetti collaterali della sedazione e dell'atrofia del diaframma del ventilatore maccanico. Con l'emergenza Covid-19, questa ricerca è diventata d'attualità.

Dal 2017 Federico Scurti è presidente dei giovani ricercatori nell’ambito del Consiglio Internazionale sulla Superconduttività (Council on Superconductivity), parte dell’Istituto degli Ingegneri elettrici ed elettronici (Institute of Electrical and Electronic Engineers, IEEE), associazione internazionale di scienziati professionisti con più di 420.000 iscritti in 150 nazioni. Oltre alla ricerca e all’innovazione, Federico Scurti è laureato al Conservatorio Luisa D'Annunzio di Pescara ed è maestro di chiatarra classica. 

Partiamo dal suo periodo universitario all'Aquila, dove ha preso il via la sua formazione tecnica, cosa le rimasto in mente?
«Ricordo la vita in una città piccola ma graziosa, con tutti i servizi, piena di studenti, molto adatta a dedicarsi allo studio perché tranquilla e con punti di svago molto raccolti in poco spazio dove era molto più facile che in una grande città coltivare amicizie senza dispendio eccessivo di tempo. Ricordo il mio impatto molto positivo con il mondo dell'università, dei suoi professori molto preparati, seri e della giusta severità. Professori didatticamente, secondo me, molto validi che hanno impostato molto bene il mio percorso universitario. Ricordo la città molto ospitale, ben disposta verso gli studenti. Ricordo anche un esame sostenuto in una tenda e un altro nel castello di Celano, mentre la terra continuava a tremare».

Del terremoto del 6 aprile del 2009 cosa porta nel cuore?
«Gli amici di allora - alcuni lo sono ancora ma, gioco forza, altre amicizie sono sfumate e la distanza non aiuta-, gli aquilani e il loro forte senso di comunità, e la città dell'Aquila rimarranno sempre nel mio cuore. Il mio pensiero va spesso a quel periodo e mi rimane, nonostante gli anni trascorsi, una tristezza di fondo che si placa un po' sapendo che la ricostruzione, anche se troppo lunga, sta facendo rinascere questa splendida cittadina. Non posso fare altro, dopo undici anni, che custodire dentro di me il ricordo dei momenti belli trascorsi a l'Aquila e la grande tristezza per la sconvolgente tragedia. Ricordo la figlia dell'avvocato Cora, proprietario dell'appartamento in cui vivevo in affitto, con cui avevo parlato qualche giorno prima della tragica notte e morta insieme alla mamma e alla sorella. Ricordo lo studente di Vasto, Davide Centofanti, e il giorno del suo funerale».

Le sue sensazioni?
«Degli eventi di quella notte ricordo molto bene la sensazione di incredulità e di impotenza. Ricordo molto vagamente la telefonata dei miei genitori che avevano sentito la scossa da Pescara, si erano svegliati immediatamente, e in pochi secondi erano riusciti a chiamarmi. Il tutto prima della fine della scossa. Per me questo è rimasto un simbolo della presenza costante dei miei genitori, anche quando separati dalla distanza. Siccome ero fuori a causa della scossa abbastanza forte di poco prima delle ore 23, in procinto di rientrare a casa dopo aver fatto compagnia ad un’amica, sono stato il primo ad arrivare a piazza Duomo. Mi sono sdraiato per terra nel mezzo della piazza e ricordo molto nitidamente la sensazione di una strana calma assoluta che ho provato una volta arrivato lì, anche se ogni tanto sentivo vibrare il suolo sotto di me. Ricordo anche che nonostante il pensiero andasse a tutti i miei amici, che nel frattempo cercavo di contattare, contemporaneamente non riuscivo ad evitare di pensare al dopo, e ricordo di aver capito, quella notte stessa, che non sarei riuscito a tornare a vivere a L’Aquila con la tranquillità necessaria per affrontare diversi anni di studi universitari, visto che ero solo al primo anno di ingegneria».

Cosa l'ha portata all'estero?
«Non sono mai stato un ragazzo cresciuto con il sogno di andare all’estero. Sebbene sia sempre stato interessato a conoscere altre culture e a viaggiare. Ho anche fatto un Erasmus a Praga. La possibilità di spostarmi l’ho presa in considerazione quando ho deciso di fare un dottorato di ricerca. Ero già stato in Usa per qualche mese a fare ricerca per la tesi di laurea magistrale e avevo acquisito un po’ di esperienza nel campo dei superconduttori. Il processo decisionale per me è iniziato dalla scelta del tema, per poi passare a valutare quale gruppo di ricerca era più attrezzato in quell’area e si allineava meglio col mio modo di lavorare. Se ricordo bene, nella mia top 3 c’erano la North Carolina State University, dove poi sono andato, l’Università di Bologna, che è la mia alma mater e un centro di ricerca in Germania (il KIT). Come vede, la mia scelta era geograficamente abbastanza “cieca”. Poi ovviamente bisogna essere ammessi al programma di dottorato; io sono stato ammesso alla mia prima scelta e quindi non ho dovuto rivisitarla».

Cosa ha determinato le sue scelte?
«Devo ammettere che, a parte ovviamente la distanza dalla famiglia, la parte più difficile per me nello scegliere di fare il dottorato all’estero, dal punto di vista professionale e umano, è stata quella di rinunciare a farlo con il mio mentore italiano, che stimo moltissimo. In quell’occasione, nel chiedergli consiglio, ho capito che avrebbe voluto che facessi il dottorato con lui, ma è stato molto attento a non influenzarmi e mi ha stimolato a vedere la realtà nel modo più oggettivo possibile. Per questo gli sarò sempre grato».

 Come e quando ha trovato lavoro?
«E’ stato abbastanza semplice perché ho deciso di continuare a lavorare sulla stessa area di ricerca portata avanti durante il dottorato. La parte più difficile è stata rinunciare ad altre offerte da aziende e da laboratori nazionali statunitensi. Il processo di reclutamento per ricercatori post-dottorato è abbastanza semplice».

Lei ha già depositato tre brevetti, di cosa si tratta? Se applicati che tipo di sviluppo porterebbero alla società?
«I brevetti sono su tecnologie che rendono possibile l’utilizzo di materiali superconduttori di nuova generazione. I materiali superconduttori hanno delle proprietà molto particolari che permettono di trasmettere corrente elettrica senza perdite di energia, e quindi possono anche essere usati per generare campi magnetici in maniera molto efficiente. Questi nuovi materiali, scoperti solo 30 anni fa, hanno delle prestazioni precedentemente inimmaginabili, ma sono anche molto soggetti a guasti. Uno dei prezzi da pagare in termini di complicazioni legate all’uso dei superconduttori è la criogenia: per far sì che i materiali superconduttori diventino tali, cioè esibiscano le proprietà che vogliamo sfruttare, essi devono essere raffreddati a temperature criogeniche, tipicamente da 2 K a 77 K (cioè da circa -200 a circa -270 gradi centigradi). Le mie invenzioni riguardano un sistema di sensori criogenici di temperatura e deformazione basato su fibre ottiche del tipo usato in telecomunicazioni (la cosiddetta “fibra” per internet e telefono, per intenderci). Inoltre, ho brevettato conduttori e cavi superconduttori con un sistema di sensori distribuito e integrato, che ho chiamato “conduttori e cavi intelligenti”, che prevengono guasti e quindi permettono l’uso di questi nuovi materiali in applicazioni industriali, dove l’affidabilità è essenziale».

Questi brevetti, insieme ai suoi titoli, le hanno permesso di vincere il premio Lemelson-MIT  per giovani inventori.
«Lemelson è una fondazione creata dal prolifico inventore americano (Jerom H. Lemelson) e il MIT è il famoso Massachusetts Institute of Technology di Boston. Oltre al prestigio, questi premi contribuiscono a riconoscere la rilevanza e l’impatto che le invenzioni possono avere».

Altre applicazioni?
«Le applicazioni industriali più comuni vanno da generatori eolici ad alta efficienza e alto rapporto potenza/peso, che permettono di aumentare la taglia del generatore a parità di componenti strutturali (fondazioni, torre), a magneti per acceleratori di particelle (come il famoso LHC del Cern, ma anche acceleratori di particelle per le terapie contro il cancro). Tra le applicazioni che sono ancora in piena fase di sviluppo, ma che promettono un impatto rivoluzionario sulla società, ci sono i reattori a fusione nucleare a confinamento magnetico. Alcuni dei progetti più importanti che ho ideato e portato avanti sono finanziati dal Dipartimento dell’Energia (agenzia federale Usa), ufficio per le scienze sull’energia da fusione (Fusion Energy Sciences), e riguardano tecnologie per lo sviluppo di un reattore a fusione nucleare compatto ad alto campo magnetico, che sfrutta le proprietà dei superconduttori di nuova generazione. Quando questi reattori passeranno dal laboratorio alla produzione industriale, avremo risolto il problema della produzione di energia elettrica e dell’abbattimento delle emissioni inquinanti associate all’utilizzo di combustibili fossili. Questo darà anche una mano importante alla mitigazione dei cambiamenti climatici, che non richiedono però una soluzione unica, ma necessitano di uno spettro di misure molto vasto e di difficile applicazione».

Ora è ricercatore all'università statale della Pennsylvania, quali studi sta portando avanti?
«Continuo a sviluppare le tecnologie per magneti superconduttori che ho brevettato, che stanno diventando sempre più mature e potrebbero arrivare presto alla commercializzazione. Più recentemente, ho iniziato a lavorare su una nuova sonda per risonanza magnetica, l’obiettivo è di realizzare un macchinario che possa aprire a capacità diagnostiche adesso impensabili».

Poi?
«Un altro progetto che ho ideato in collaborazione con due professori di medicina specializzati in anestesiologia e neurochirurgia punta a sviluppare un ventilatore non invasivo come alternativa al ventilatore meccanico classico. Il ventilatore meccanico è proprio quel macchinario medicale che è diventato famoso durante questa pandemia di nuovo coronavirus. Ho iniziato lo studio circa un anno fa, quindi non in seguito alla pandemia, ma ora penso che lo porterò avanti con una rinnovata motivazione. Si tratta di un macchinario che adempie allo stesso scopo del ventilatore meccanico ma senza gli effetti collaterali dovuti a invasività, sedazione, atrofia del diaframma. Si basa su principi fisici completamente diversi, pur cercando di ottenere lo stesso effetto, cioè aiutare il paziente in terapia intensiva a respirare».

Inventore, musicista con laurea al Conservatorio, ricercatore. Lei ha trovato uno spazio adeguato alle sue capacità negli Usa. Vuole tornare in Italia? 
«Ho avuto difficoltà a spiegare ai miei genitori e ad alcuni amici che non ho mai avuto un piano su dove stabilirmi a lungo termine. Ovviamente ho un’idea di cosa voglio fare dal punto di vista professionale, ma non ho mai escluso quasi niente in termini di dove realizzare le mie aspirazioni. La motivazione principale che mi ha portato all’estero è veramente il desiderio di crescita professionale. Sicuramente non faccio parte della categoria di emigrati che si spostano perché non si trovano a proprio agio nelle società di partenza. Nel mio caso, io apprezzo quasi tutto della società italiana e più aumenta il tempo passato lontano dall’Italia, più la apprezzo. Se potessi dare un consiglio ai miei connazionali che vivono in Italia, direi di fare lo sforzo di guardare ad altri paesi e apprezzare di più gli aspetti quasi unici della società italiana (altruismo, senso del bene comune, scuola e sanità come diritti, pensioni di anzianità e assistenza ai disabili). Quindi lasciando l’Italia non ho rinunciato solo alla vicinanza dei miei cari, ma anche a tutte le cose che apprezzo del mio paese. Ma se metto al centro la mia carriera e faccio un’analisi oggettiva delle potenzialità che potrei avere in alcuni dei paesi in cui realisticamente potrei vivere e lavorare, l’Italia non risulta vincente. Purtroppo se dovessi decidere di tornare in Italia sarebbe “solo” per il cibo, la cultura, lo stile di vita, la sanità e i servizi in generale, e la famiglia. Che non è poco. Ma alla mia età, in un momento professionalmente cruciale che deciderà la mia carriera per decenni a venire, devo pensarci bene».

L'Italia secondo lei è attrattiva per i giovani laureati stranieri?
«Prendendo spunto dalle cose che ho menzionato sui diversi tipi di immigrazione, vorrei aggiungere una cosa che potrebbe essere molto interessante e mostra come noi italiani vediamo la nostra Italia, e come invece potremmo vederla: la maggior parte dei miei amici immigrati altamente qualificati che arrivano in Usa (e che contribuiscono significativamente al Pil americano), alla mia domanda “come mai non avete considerato di andare in Italia, per esempio, invece che in Usa?”, rispondono che addirittura culturalmente preferirebbero l’Italia (per tutte le cose che sappiamo: arte, cibo, storia, stile di vita, ma anche per la moda, la tradizione musicale e la bellezza delle nostre città) ma non c’è un programma di immigrazione che dia una sufficiente sicurezza di potersi stabilire, ottenere una residenza permanente (praticamente una cittadinanza), trovare un lavoro e programmare il futuro. Cioè vorrebbero, ma non possono. L’Italia non risulta un paese che attira questo tipo di immigrati, e il motivo sembra essere burocratico. Devo dire che fino a qualche anno fa avevo un’idea completamente diversa del mio paese, pensandolo molto accogliente, dove tutti sono benvenuti. Conoscere che non è così è stata una delusione. Forse avendo un’immigrazione più variata, che cioè attiri medici, ricercatori, ingegneri, invece che solo persone che loro malgrado devono adattarsi a fare lavori umili, si potrebbe iniziare ad emancipare questo tema che ultimamente è diventato oggetto di strumentalizzazioni, polemiche e divisioni».

A livello di attrezzature, laboratori, soddisfazione professionali ed economiche, in Italia riuscirebbe a fare lo stesso lavoro, con gli stessi risultati?
«Purtroppo no. La differenza principale, al di là degli investimenti e dei bilanci delle università, è il modo in cui le università stesse e le aziende vedono i loro dipendenti, e in particolare i giovani all’inizio della loro carriera. Qui c’è una mutua consapevolezza che il datore di lavoro sta investendo su di te, aspettandosi ovviamente dei risultati, ma allo stesso tempo è chiaro che è loro interesse, tanto quanto tuo, che tu sia messo in condizioni di avere successo: se non fosse così, il datore di lavoro avrebbe fatto un investimento sbagliato, improduttivo. Secondo me in Italia servono sia un cambiamento di atteggiamento dei datori di lavoro che il chiaro incremento dei finanziamenti strutturali per la ricerca. Un esempio è il “pacchetto di avviamento” che qui un giovane professore riceve a seguito della prima assunzione: si tratta di un fondo che deve essere speso solitamente nei primi 3 anni e può essere usato per comprare macchinari, assumere studenti e tecnici, allestire il laboratorio e viaggiare per conferenze e collaborazioni. Sebbene la cifra dipenda dalla materia e dal dipartimento, in ingegneria si attesta tipicamente tra 300,000 e 500,000 dollari».

E per quanto riguarda le prospettive future?
«Un’altra differenza molto rilevante tra l’Italia e gli Usa, per quanto riguarda le opportunità di lavoro e di soddisfazioni professionali nel campo della ricerca, è l’enorme massa di aziende che in Usa fa ricerca di alto livello, sia applicativa che di base, comparabile a quella universitaria. Questa componente, in termini di sbocco professionale per chi fa il dottorato di ricerca in Italia, è totalmente assente. In Usa solo una piccola frazione dei giovani ricercatori che hanno ottenuto il dottorato di ricerca sceglie di fare la carriera accademica. Ci sono diverse statistiche e se non sbaglio solo il 5-10 % dei dottorati rimane in accademia. Oltre il 90%  finisce per lavorare in industria, con mansioni di ricerca e sviluppo e con stipendi elevatissimi, molto più alti di quelli dei professori universitari. Ogni grande azienda tecnologica in Usa ha un reparto ricerca e sviluppo che assume e cerca solo dottori di ricerca. Ed è da lì che escono le innovazioni che mantengono le aziende competitive. Sarebbe interessante se il governo intervenisse in Italia per potenziare anche la ricerca privata, magari attraverso incentivi per aziende che assumono dottori di ricerca. Sarebbe un piano molto poco costoso (visto che si tratta di un numero di persone molto piccolo), ma dall’impatto notevole, sia per la competitività dell’industria, che per il benessere della società».

Come finirà con il coronavirus?
«Uno dei detti latini che sento più vicino è “ex malo, bonum”. E’ stato come una stella polare per la mia ripartenza dopo il terremoto dell’Aquila. Da allora ho cercato di far sì che la tragedia si trasformasse in un’opportunità. Ho cambiato il percorso di studi da ingegneria meccanica a ingegneria energetica e ho trovato un ottimo ambiente accademico a Bologna. In altre parole, il vissuto di quel terribile 6 aprile 2009 mi ha reso più attivo nella ricerca di opportunità che altrimenti non avrei colto per inerzia».

Insomma trovare una strada per il rilancio dopo la pandemia.
«Sarebbe interessante, come recita il detto latino, se anche il mio paese riuscisse a sfruttare questa situazione di crisi conseguente alla pandemia, come un’occasione per fare dei passi in avanti che segnerebbero un’epoca nuova, all’insegna di investimenti per una apertura alla modernità e all’innovazione nel campo dell’amministrazione, dell’industria, dell’università e della ricerca. Passi che ora potrebbero essere più facili da fare, grazie a rinnovate motivazioni e volontà di migliorarsi che le persone possono trovare dopo un periodo di grandi difficoltà. Penso però che per sfruttare questo “terreno fertile” dovuto alla spinta che le persone possono dare, ci debba essere anche un impegno forte per il rilancio dell’economia da parte dell’Unione Europea. Se ciò avverrà penso che porterà ad un rilancio dell’idea di Europa e, se gli stati membri avranno la forza di abbandonare l’attaccamento alla sovranità nazionale, si potranno realizzare finalmente gli Stati Uniti d’Europa, con un’economia al servizio dei cittadini e la vocazione alla pace, che l’Unione ha assicurato dalla sua nascita ad oggi. E così…“ex malo, bonum“ anche per l’Europa».

 
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