Bisognerebbe imparare ad ascoltare i silenzi, per esempio. Anche in politica, luogo della sovrabbondanza verbale e dell’ipertrofia dialettica. Ecco: da mesi Matteo Renzi e...
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L'accordo. A qualcuno ha ricordato un precedente illustre: proprio un anno fa, quando si consumò la scissione di bersaniani e dalemiani, in 24 ore il governatore passò dal palco degli scissionisti (la celebre foto con Roberto Speranza ed Enrico Rossi) alla tormentata ricucitura con Renzi. Emiliano doppio gusto, all’epoca come ora. Ecco, a sfogliare l’elenco di candidati pugliesi, la minoranza del governatore non sembra bullizzata - anzi: tre capilista su sei sono di stretto rito emilianiano, gli altri tre - per curriculum e relazioni - non risultano certo sgraditi al governatore, un paio di secondi piazzati nei listini hanno chance d’elezione e sono d’area Emiliano, proprio come più di qualche alfiere nei collegi uninominali. Insomma: più che una tregua armata tra governatore e segretario, di cui s’è favoleggiato per mesi, parrebbe uno patto di ferro, che in una notte spazza via tutta la letteratura sulla guerriglia Matteo-Michele, sul “così uguali e così diversi” e sul refrain “inconciliabili perché assetati allo stesso modo di carisma”. Naturalmente però alla radice c’è anche altro: di certo c’è il riconoscimento da parte del segretario della leadership pugliese del governatore, ormai impossibile da negare ed eclissare (in primavera qui vinse pure il congresso nazionale). A tutto il resto ci hanno pensato le complesse alchimie di partito e gli oscuri meccanismi psicologici che governano le più logoranti trattative: Renzi ha dovuto sfrondare e tagliare (la proiezione è di circa 150 parlamentari in meno rispetto al 2013), alle minoranze ha proposto numeri appena da testimonianza, a Emiliano a quel punto interessava perlopiù presidiare e puntellare il grumo di potere e radicamento pugliese, e allora avrà chiesto che larga parte del bottino di candidati blindati venisse concentrato qui, a casa sua. Un ruolo non marginale nel congegno delle liste l’avrà avuto anche Antonio Decaro: il sindaco di Bari, e presidente nazionale Anci, è un ufficiale di collegamento del “giglio magico renziano” in Puglia. Non solo: seppur tra gli alti e bassi del rapporto, Decaro non spezza mai del tutto lo storico filo con Emiliano.
Chi vince. È una corsa al “si salvi chi può”, per Renzi e per Emiliano: tu, Michele, non mi fare troppo la guerra; e tu, Matteo, dammi spazi di manovra pugliesi. Chi vince e chi perde con questa infornata di candidature? Come cambiano gli equilibri? La radiografia dei nomi blindati agevola la lettura. I capilista, prima di tutto. Gli emilianiani sono il presidente della Commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia, originario di Bisceglie ma dirottato nel collegio camerale più a sud della Puglia; Assuntela Messina, presidente del Pd regionale, alla prima vera candidatura; Ubaldo Pagano, segretario del partito a Bari e anche lui con la valigia in direzione Taranto-Brindisi. Renzi ha persino buttato giù il boccone Boccia, a cui pare avesse giurato vendetta dopo le scintille sulla Legge di Bilancio. Non va male a Emiliano nemmeno con gli altri tre capilista. Marco Lacarra, segretario regionale Pd e in testa al listino a Bari, è un renziano vicino a Decaro, ma da uomo di mediazioni non brilla certo per militanza anti-emilianista. Il neo-renziano Dario Stefàno, nel Pd da qualche mese, capolista salentino al Senato e parlamentare uscente, contribuisce alla maggioranza regionale di centrosinistra con un assessore e due consiglieri, e per lui Emiliano ha sempre speso parole di stima. L’orlandiano Michele Bordo, altro uscente, è uno dei contraenti (l’altro è il governatore) del “patto di segreteria provinciale” stretto a Foggia. Bisogna poi aggiungere alla contabilità di Emiliano due secondi piazzati eleggibili nei listini del Senato (Sandra Antonica e Dario Ginefra), e un buon numero di concorrenti agli uninominali che magari non saranno eletti, ma comunque si ritaglieranno visibilità.
E chi perde. E viceversa chi perde, o esce ammaccato, da questo primo round? In ordine sparso: in parte Teresa Bellanova, poi una corposa fetta di uscenti e infine Taranto, Brindisi e per certi versi Lecce. Bellanova, pubblicamente incensata a più riprese da Renzi, presidio a sinistra del renzismo e dell’ortodossia di governo e marcatrice stretta di Emiliano nelle fasi più buie, era indicata come capolista intoccabile in Puglia: la sua esclusione è eclatante. D’accordo: verrà comunque eletta, peraltro in un collegio dall’alto valore simbolico (Bologna, dov’è capolista e dov’è stata richiesta dai dirigenti locali), ma il cortocircuito resta. Oltretutto la viceministro dovrà cimentarsi in una sfida dal pronunciato lirismo politico e che calamiterà riflettori nazionali: quella all’uninominale con Massimo D’Alema. Che dire poi degli uscenti? Molte “decapitazioni” da parte di Renzi, ma senza dubbio riecheggiano forti e assordanti quelle dei parlamentari che tra referendum e dossier di governo si sono spesi senza riserve a difesa di palazzo Chigi, in questi anni: da Massa a Capone, da Tomaselli a Vico, via con un tratto di penna. S’assottiglia così l’area del Pd pugliese che interseca le correnti Renzi e Martina, e che in Bellanova ha un riferimento di spicco. Risultato: ulteriore, potenziale irrobustimento di Decaro e di Emiliano. Negli incastri di listini e uninominali è rimasto stritolato anche il sud della Puglia: su sei capilista soltanto uno (Stefàno) è dell’arco Brindisi-Lecce-Taranto, col vento barese-foggiano che spira forte. Il Salento è già una polveriera, per il Pd. E Taranto (al pari di Brindisi, altro polo industriale) ancora una volta ha dovuto accontentarsi dei proclami, delle promesse, della seduzione elettoralistica, delle attenzioni sbandierate: insomma, delle solite parole. O dei silenzi, spesso così eloquenti. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia