Il calcolo risale a quattro mesi fa, commissionato a passi felpati da palazzo Chigi e dal ministero dello Sviluppo economico: «Venti miliardi», fu la risposta data a...
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Come avrebbe potuto il governo passare il colpo di spugna su Tap, anche sfidando costi così ingenti? E in quale cornice si inserisce il progetto? Quando gli stessi ministri hanno accennato ai «trattati internazionali», il riferimento era ed è all'accordo tra Albania, Grecia e Italia (i Paesi di passaggio del Tap) sottoscritto dai tre governi e poi ratificato dal nostro Parlamento nel 2013. I no Tap si sono affrettati più volte a precisare che «non è prevista la firma da parte dell'Italia di alcun Host government agreement (Hga)». Tuttavia gli accordi sul piatto sono due, l'uno ratificato dall'Italia, finalizzato al «rafforzamento della cooperazione tra i tre governi» e sottoposto a clausole, norme e responsabilità del diritto internazionale; l'altro accordo, quello in effetti mai sottoscritto dall'Italia, è tra governi ospitanti l'opera e l'investitore, è un'intesa citata anche dall'articolo 5 dell'altro accordo ed è limitata ai Paesi su cui ricade larga parte dell'infrastruttura (Albania e Grecia). Nel primo accordo, sottoscritto dall'Italia, ci sono due articoli (7 e 11, intitolati non interruzione del progetto e responsabilità) che determinano comunque impegni e violazioni.
Un eventuale addio italiano al Tap avrebbe dovuto comportare, per prima cosa, l'annullamento in autotutela dell'autorizzazione unica del maggio 2015. Annullamento che però dev'essere motivato da sopraggiunti e nuovi elementi progettuali o di incompatibilità normativa, in sostanza dev'essere cambiato qualcosa nell'opera o nel contesto in senso lato. Il che comunque non sottrarrebbe dal rischio di una salata azione risarcitoria, proporzionata all'investimento. Danno emergente e lucro cessante, dice il codice civile: la perdita subita e il mancato guadagno, che Tap rivendicherebbe dopo aver incassato l'autorizzazione, firmato i contratti e avviato i lavori. In pratica, venendo meno l'opera, Tap dovrebbe comunque risarcire a sua volta le aziende appaltatrici e gli importatori-acquirenti (cioè chi ha già firmato i contratti d'acquisto del gas: otto società in tutta Europa, tra cui gli italiani Enel, Edison, Hera). Il tutto senza oltretutto trascurare il ruolo di Snam (dunque Cassa depositi e prestiti, cioè lo Stato) nella partita Tap: è socio al 20% di Tap e dovrebbe realizzare l'opera di interconnessione terrestre tra terminale di ricezione Tap è rete nazionale (fino a Mesagne).
Un percorso a ostacoli che ha scoraggiato il governo. Né l'alternativa finora ha fruttato risultati: rintracciare nelle autorizzazioni falle progettuali tali da richiedere lo stop al cantiere. Strategia, quest'ultima, su cui si misura la distanza tra fronte salentino del no ed esecutivo. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia