L'uscita dal progetto Tap? «Almeno 20 miliardi di costi per l'Italia» E il governo rinuncia allo stop politico

L'uscita dal progetto Tap? «Almeno 20 miliardi di costi per l'Italia» E il governo rinuncia allo stop politico
di Francesco G. GIOFFREDI
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Mercoledì 17 Ottobre 2018, 09:19 - Ultimo aggiornamento: 18 Ottobre, 00:26
Il calcolo risale a quattro mesi fa, commissionato a passi felpati da palazzo Chigi e dal ministero dello Sviluppo economico: «Venti miliardi», fu la risposta data a Giuseppe Conte e a Luigi Di Maio. Meglio: «Almeno 20 miliardi», perché l'asticella potrebbe vertiginosamente elevarsi fino a quota 70 miliardi. Tanto costerebbe all'Italia un'uscita dal progetto Tap. Per avere un metro: l'ultima manovra finanziaria vale 37 miliardi. Si badi, a scanso di equivoci e come più volte precisato su questo giornale: vero, non esistono penali in caso di exit strategy dal Tap; ma il costo a carico dello Stato verrebbe determinato dalle inevitabili azioni risarcitorie che gli investitori attiverebbero in caso di stop all'opera. Questa è la base, quasi naturale. La lievitazione fino a 70 miliardi - come da proiezione tra gli altri anche a cura di Socar, compagnia energetica dell'Azerbaijan (paese d'estrazione della materia prima) - verrebbe così determinata: la già menzionata azione risarcitoria dei soci del Consorzio nei confronti dell'Italia in virtù delle spese sostenute e dei profitti non raggiunti, i maggiori costi di approvvigionamento, la mancata fiscalità.
Come avrebbe potuto il governo passare il colpo di spugna su Tap, anche sfidando costi così ingenti? E in quale cornice si inserisce il progetto? Quando gli stessi ministri hanno accennato ai «trattati internazionali», il riferimento era ed è all'accordo tra Albania, Grecia e Italia (i Paesi di passaggio del Tap) sottoscritto dai tre governi e poi ratificato dal nostro Parlamento nel 2013. I no Tap si sono affrettati più volte a precisare che «non è prevista la firma da parte dell'Italia di alcun Host government agreement (Hga)». Tuttavia gli accordi sul piatto sono due, l'uno ratificato dall'Italia, finalizzato al «rafforzamento della cooperazione tra i tre governi» e sottoposto a clausole, norme e responsabilità del diritto internazionale; l'altro accordo, quello in effetti mai sottoscritto dall'Italia, è tra governi ospitanti l'opera e l'investitore, è un'intesa citata anche dall'articolo 5 dell'altro accordo ed è limitata ai Paesi su cui ricade larga parte dell'infrastruttura (Albania e Grecia). Nel primo accordo, sottoscritto dall'Italia, ci sono due articoli (7 e 11, intitolati non interruzione del progetto e responsabilità) che determinano comunque impegni e violazioni.

Un eventuale addio italiano al Tap avrebbe dovuto comportare, per prima cosa, l'annullamento in autotutela dell'autorizzazione unica del maggio 2015. Annullamento che però dev'essere motivato da sopraggiunti e nuovi elementi progettuali o di incompatibilità normativa, in sostanza dev'essere cambiato qualcosa nell'opera o nel contesto in senso lato. Il che comunque non sottrarrebbe dal rischio di una salata azione risarcitoria, proporzionata all'investimento. Danno emergente e lucro cessante, dice il codice civile: la perdita subita e il mancato guadagno, che Tap rivendicherebbe dopo aver incassato l'autorizzazione, firmato i contratti e avviato i lavori. In pratica, venendo meno l'opera, Tap dovrebbe comunque risarcire a sua volta le aziende appaltatrici e gli importatori-acquirenti (cioè chi ha già firmato i contratti d'acquisto del gas: otto società in tutta Europa, tra cui gli italiani Enel, Edison, Hera). Il tutto senza oltretutto trascurare il ruolo di Snam (dunque Cassa depositi e prestiti, cioè lo Stato) nella partita Tap: è socio al 20% di Tap e dovrebbe realizzare l'opera di interconnessione terrestre tra terminale di ricezione Tap è rete nazionale (fino a Mesagne).
Un percorso a ostacoli che ha scoraggiato il governo. Né l'alternativa finora ha fruttato risultati: rintracciare nelle autorizzazioni falle progettuali tali da richiedere lo stop al cantiere. Strategia, quest'ultima, su cui si misura la distanza tra fronte salentino del no ed esecutivo.
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