Raffaele Fitto e il Pnrr, il rischio della "palude" e la corsa solitaria per fare presto

A far scattare l'allarme rosso è stato lo stesso Fitto: non tutta la mole di progetti potrà essere conclusa al tassativo traguardo del 2026

Raffaele Fitto e il Pnrr, il rischio della "palude" e la corsa solitaria per fare presto
di Francesco G. GIOFFREDI
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Venerdì 31 Marzo 2023, 07:06 - Ultimo aggiornamento: 12:25


Il rischio palude c'era sin dall'inizio, e probabilmente Raffaele Fitto lo aveva pure messo in conto: la materia del resto è incandescente, i difetti strutturali e di sistema sono ben noti e il contesto è perlomeno delicato. E dunque: fondi europei e del Pnrr, bassa capacità di spesa complessiva e rapporti sensibili con la Commissione europea. Forse però il ministro plenipotenziario, cassaforte del governo Meloni e uomo di relazioni a Bruxelles, non s'aspettava un quadro così problematico e uno scenario talmente insidioso, ai limiti dell'impatto frontale: c'è troppa sabbia negli ingranaggi del Piano nazionale di ripresa e resilienza da quasi 200 miliardi, e l'allineamento con tempi, scadenze, obiettivi quantitativi e qualitativi sta rischiando di saltare, almeno in parte.

A far scattare l'allarme rosso è stato lo stesso Fitto: non tutta la mole di progetti potrà essere conclusa al tassativo traguardo del 2026 - ha spiegato - perché è cambiata la cornice e la spesa è appesantita da troppe variabili e mille incrostazioni. Non sono parole nuove: chi gli è vicino riporta i continui «io lo dico da tempo» del ministro salentino, ora i toni sono però sempre meno sereni e c'è la sensazione tangibile d'essere quasi da solo nel tentativo di ottimizzare i meccanismi di spesa e di intavolare trattative con l'Ue.

Cosa sta succedendo

Continua a muoversi cauto tra avvertimenti velati e rassicurazioni, ma Fitto in queste ore sta scoprendo come non mai d'essere alla guida di una macchina col motore ingolfato, come raccontato pure dalla Corte dei Conti.

Sulla carta intestata del ministro c'è una quantità tale di responsabilità e materie strategiche da provocare le vertigini, tuttavia la struttura politico-istituzionale e tecnica di supporto non è stata adeguata e potenziata. Resta da capire se lo sarà mai, ed il vero rebus a media e lunga scadenza forse è proprio questo. Il pacchetto deleghe affidato da Giorgia Meloni a Fitto, con palese attestazione di stima e fiducia, fa tremare i polsi: Affari europei, Pnrr, Coesione territoriale, Sud, e poi la Struttura di missione alla Presidenza del Consiglio che tutto dovrà coordinare, sovrintendere e vigilare. Non sfugge la ratio di questa scelta fatta nei mesi scorsi e poi ulteriormente confermata e rafforzata: sono tutti livelli di programmazione e spesa che è opportuno far dialogare tra loro, senza sovrapposizioni e con un'unica regia.

Non solo: il decreto voluto da Fitto nelle scorse settimane ridisegna la governance del Pnrr, dei fondi europei di Coesione e del Fsc, con maggiore coordinamento e centralizzazione, ma nella sostanza il provvedimento è ancora fermo lì. Banalmente, non c'è stato nemmeno il pieno rafforzamento del contingente di funzionari e personale. Problema che riguarda anche le figure apicali che dovrebbero affiancare Fitto: il ministro è una specie di one man orchestra, non ha vice o sottosegretari, né dirigenti che possano sostituirlo ai tavoli tecnico-politici. Certo, è questione anche di attitudine: il salentino tende a gestire tutto in prima persona. Ma che ci sia un deficit di struttura tecnico-politica, è evidente.

Il monito

Ieri intanto ha avvertito: «Nella discussione in atto fra singolo Stato e Commissione europea dobbiamo evidenziare le peculiarità dell'Italia. Se siamo il Paese con il più grande Piano di ripresa e resilienza e siamo fra i Paesi con i più grandi Programmi di coesione, vuol dire che abbiamo una specificità e questa specificità deve essere considerata rilevante». «Il Pnrr ha come scadenza il giugno 2026, mentre le risorse della coesione hanno una scadenza del 31 dicembre 2029, quelle del fondo di sviluppo e coesione non hanno una scadenza. L'obiettivo del governo è quello connettere i tre programmi immaginando una visione comune nell'utilizzo di queste risorse anche utilizzando le diverse date per poter centrare i diversi obiettivi».

È una delle ipotesi sul piatto: spostare alcuni progetti dal Pnrr ai fondi di Coesione, cercando di sfruttare il maggiore e più elastico lasso di tempo. «Usare la flessibilità sui fondi esistenti proposta dall'Italia è un'opportunità che può permettere al Paese di reggere l'urto della fase complessa che abbiamo di fronte». In ogni caso, «porsi il problema del Pnrr è una priorità assoluta, ma analizzare ciò che è accaduto tra il 2014 e il 2020 dal punto di vista della capacità di spesa è un altro elemento di riflessione». Il riferimento è alla relazione presentata al Parlamento nelle scorse settimane, una sorta di ricognizione e base operativa: «In quella relazione non ho usato opinioni personali, ma tre punti di riferimento: l'ottavo rapporto sulla Coesione della Commissione europea, la relazione della Corte dei Conti, i dati della Ragioneria dello Stato. Complessivamente su 126 miliardi di euro previsti nell'intera programmazione, tra risorse europee e nazionali, al momento la percentuale di spesa è intorno al 34%».

Ora in ballo c'è il doppio filo di trattativa con l'Ue: la terza rata del Pnrr da 19 miliardi, con un mese in più di margine; la flessibilità dei fondi, con il gioco di sponda già ricordato tra Pnrr e fondi di Coesione, anche intervenendo con modifiche strutturali del Piano. Ma la macchina va potenziata. Per non far sentire più il ministro solo, o quasi isolato in una sfida cruciale.

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