Un anno fa la scomparsa di Marias

Un anno fa la scomparsa di Marias
di Paolo Maria MARIANO
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Lunedì 2 Ottobre 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 06:52
Da circa un anno è scomparso a Madrid lo scrittore spagnolo Javier Marias, stroncato da una polmonite bilaterale indotta dal Covid-19. Era nato a Madrid il 20 settembre 1951; aveva settant’anni. Viveva in Plaza Mayor, in uno di quei palazzi che circondano quella piazza rettangolare alla confluenza dei “caminos” Toledo e Atocha, luogo di storia e di memorie.
Chi lo intervistò riferì di persona guardinga. Può darsi che l’impressione fosse generata anche dalla soggezione indotta dalla densità fluviale della sua scrittura e dalla sua posizione nel mondo delle lettere. A proposito di soggezione, riferiva una vicina, proprietaria di un ristorante, d’averlo incontrato a un semaforo, entrambi a piedi, d’averlo squadrato come fosse una maestra all’apparenza severa che squadra un bambino dopo una marachella ma infine d’esser riuscita a dire solo “Marías”. Null’altro. Pare che quella signora non ebbe Marias tra i clienti del suo ristorante. Può darsi che, invece, qualche volta andasse, vicino casa, al “Sobrino de Botín”, che nella Spagna tra il Cinquecento e il Seicento, il cosiddetto Secolo d’Oro, fu covo di “hidalgos” che preferivano gli stivali bucati come le loro tasche al sudore del lavoro.
Quell’essere guardingo e tendenzialmente solitario si riflette nelle sue storie i cui personaggi sono spesso afflitti da un segreto o dalla ricerca di un segreto.
Marías fu figlio d’arte. Il padre, Julián Marías Aguilera era un filosofo e un critico letterario originario di Valladolid, discepolo di José Ortega y Gasset, ed era membro dell’Accademia Reale Spagnola, dove il figlio avrebbe occupato il seggio “R”; la madre, la scrittrice Dolores Franco Manera, madrilena, era sorella del regista Jesús Franco, che introdusse il nipote da giovane nel mondo del cinema, facendogli scrivere e tradurre copioni; lo stesso fece il cugino di Marías, Ricardo Franco, anch’egli regista. Da quel mondo, però, dopo la laurea all’Università Complutense di Madrid in filologia inglese, Marías si distaccò per la carriera accademica: prima Oxford per due anni, esperienza che richiamò nel romanzo “Tutte le anime” del 1989 (Einaudi, 1999), poi un passaggio dal Wellesley College nel Massachussetts, infine la cattedra di “teoria e traduzione” della Complutense. Fu, infatti, anche traduttore; in questa veste la lista di autori da lui affrontati è piuttosto ampia: va da Thomas Hardy a Thomas Bernhard, a Laurence Sterne (il “Tristam Shandy”… E che altro?), a Robert Louis Stevenson, a Joseph Conrad, a William Faulkner (a proposito di scrittura densa), a Vladimir Nabokov. Una serie di brevi ritratti “in punta di penna”, per così dire, raccolta in “Vite Scritte” (Einaudi, 2019), è un’ulteriore indicazione del proprio gusto. Tra questi ritratti emerge l’ammirazione per Giuseppe Tomasi di Lampedusa, per la persona e per quel suo unico romanzo dal successo postumo all’autore: “Il Gattopardo”.
Di romanzi, invece, Marías ne scrisse quattordici (in Italia il suo editore è Einaudi). In tutti evitò d’occhieggiare alle mode sia tematiche sia stilistiche: faceva letteratura in quanto arte, non come mezzo di autopromozione narcisistica. È quella di non seguire le mode né di promuoverle una strada impervia, tendenzialmente affrontata da chi aspira all’arte di per se stessa, qualunque cosa sia l’arte e qualunque sia il modo per poterla riconoscere.
Come opere maggiori di María si citano spesso “Un cuore così bianco” del 1992 (Einaudi, 1999), che il principe dei critici tedeschi, Marcel Reich-Ranicki, definì “opera magistrale”, prefigurando già allora il premio massimo; “Domani nella battaglia pensa a me”, magnifico titolo shakespeariano del 1994 – uno di quelli per cui uno scrittore minore si chiede stizzito “perché non è venuto in mente a me un titolo del genere?” – (Einaudi, 1998); la monumentale trilogia “Il tuo volto domani” del quinquennio 2002-2007 (Einaudi, 2003, 2007, 2010); i due ultimi romanzi tra loro connessi: “Berta Isla” del 2017 (Einaudi, 2018) e “Tomás Nevinson” del 2021 (Einaudi, 2022). Questi ultimi, come anche la trilogia, sono attraversati ancor più di altri dall’afflizione data dalla segretezza qui esemplificata nell’appartenenza ai servizi segreti (Tomás Nevinson) o dal ricevere l’indiretta conseguenza di quell’appartenenza altrui (Berta Isla).
“Il Secolo” del 1983 (Einaudi, 2013), di dimensioni minori delle opere citate, è forse di non minore intensità stilistica. Lo scenario s’apre su un uomo anziano largamente abbiente, costretto al letto, circondato da parenti e famigliari che paiono avvoltoi in attesa della carcassa da spolpare. Non si riesce all’inizio a non parteggiare per quell’uomo così aggravato dagli anni e dalle malattie. È un giudice di grande prestigio e, anche per questo, di grandi mezzi. Pian piano, però, dalle sue stesse riflessioni emerge un’altra forma di lui: è stato un delatore del regime franchista; mentre esercitava con rigore la legge, nel suo privato quella stessa legge violava in un certo senso. Radice di questa duplicità era forse il desiderio di corrispondere all’immagine che nella sua immaginazione il padre, per lui figura autorevole, forse l’unica tale, avesse (o avesse voluto avere) di lui e del suo futuro. Allora quell’uomo nella sua condizione trova la nemesi che egli stesso si è creato. Così, parola dopo parola, quella vicenda perde la sua specifica peculiarità e si trasforma in un paradigma estraneo al tempo storico narrato, una cifra questa che è comune alle opere di Marías: l’atemporalità.
Nella primavera del 2022 fu assegnato a Javier Marías il Premio Gregor von Rezzori a Firenze. Partecipò da remoto, senza concedersi i tre giorni fiorentini di solito programmati dalla Fondazione “Santa Maddalena”. Da anni si parlava della possibilità che gli fosse assegnato il Nobel per la letteratura. Questo è ormai escluso perché lo si assegna solo ad autori viventi. D’altra parte, non sono i premi né l’estatica fama momentanea a decretare il peso dell’arte di chi scrive o si perita in altra attività artistica: è il tempo il vero giudice, e osserva da lontano l’altrui agitarsi in vita, distaccato e pare quasi a tratti sogghignante.
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