Il linguista: «Poche regole e l'Italiano non è sessista». L'Accademia della Crusca risponde al Comitato pari opportunità della Corte di Cassazione

Il linguista: «Poche regole e l'Italiano non è sessista». L'Accademia della Crusca risponde al Comitato pari opportunità della Corte di Cassazione
di Rosario COLUCCIA
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Domenica 14 Maggio 2023, 19:32

Alcune settimane fa il Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione ha posto all’Accademia della Crusca una domanda riguardante il rispetto della parità di genere nella stesura degli atti giudiziari. Si tratta di una questione molto sentita che travalica l’ambito giuridico e, sul piano generale, interessa tutti coloro che sono attenti a un uso appropriato e consapevole della lingua. Le sollecitazioni a un uso non sessista della lingua italiana hanno una storia più che trentennale e poggiano su dati incontrovertibili. La prevalenza “storica” (e grammaticalmente strutturale) nella lingua italiana del genere maschile si manifesta nei nomi usati con doppia valenza, ritenuti validi per il maschile e per il femminile; tale modalità di fatto annulla la presenza del soggetto femminile.

Non sono frequenti e non da tutti vengono usati correntemente termini declinati al femminile che riguardino le istituzioni o il potere. In questi casi, anche quando ci si riferisce a donne, spesso si continua a usare ministro, sindaco, assessore, ecc. (anziché ministra, sindaca, assessora, ecc.). Così facendo, si accorda prestigio al termine maschile a scapito del corrispettivo femminile. Ora, opportunamente, la Corte di Cassazione, sollecita una riflessione sul tema che interessa chi lavora nei settori del diritto, dell’amministrazione della giustizia, della burocrazia, delle istituzioni pubbliche. Ma non solo. Riflettere su tali questioni non è materia per pochi specialisti, coinvolge la generalità di parlanti e scriventi, implica tutti. Riguarda in particolare chi con l’italiano lavora quotidianamente: magistrati, e anche avvocati, professori, giornalisti, ecc. 

Le regole


Al quesito della Corte, l’Accademia ha risposto analiticamente (chi è interessato trova il testo intero al sito www.accademiadellacrusca.it). Per comodità dei lettori, riassumo alcuni punti della risposta, con qualche semplificazione e con qualche integrazione. 
Ecco poche regole o raccomandazioni:
1) evitare in maniera assoluta il maschile singolare, quando risulta marcato (“uomo” è marcato rispetto a “donna”, “persona” non è marcato);
2) evitare l’articolo determinativo prima dei cognomi (e nomi) femminili, perché genera un’asimmetria con quelli maschili;
3) usare il genere femminile per i titoli professionali che sono riferiti a donne;
4) evitare artifizi grafici o espedienti grammaticali incongrui, che snaturano la lingua senza contribuire al raggiungimento effettivo della parità di genere.
Ecco alcune indicazioni pratiche, che ognuno può mettere in atto.


Va evitato il riferimento raddoppiato ai due generi, in casi come: studentesse e studenti, elettrici ed elettori, lavoratrici e lavoratori, ecc. Si ispira forse a un modello remoto (signore e signori) ma la reduplicazione appare retorica e ipocritamente galante, non a caso è frequente nell’oratoria pubblica o politica. Il linguaggio deve essere conciso. Per evitare inutili allungamenti della frase si possono scegliere forme neutre o generiche, per esempio dire “le persone” (e non “gli uomini”), “il personale” (e non “i dipendenti”) ecc. Quando questo non sia possibile, è accettabile il maschile plurale “inclusivo” e non marcato, ben vivo nella lingua, nell’uso comune: “Tutti pronti?”, “Siete arrivati tutti?”, “Sono tutti sani e salvi!”.
Va evitato l’articolo determinativo che precede i cognomi (e i nomi) di donne (pur se esistono attestazioni anche letterarie, storiche e in vari dialetti). L’articolo non va usato, può suonare discriminatorio e offensivo, non solo per il femminile, ma anche per il maschile. Nell’italiano di oggi, l’articolo ricorre spesso al femminile: «la Merkel», «la Meloni», «la Schlein», raramente al maschile: «il Draghi», «il Letta». Per evitare discriminazioni di genere converrà quindi omettere sempre l’articolo davanti ai nomi propri, sia maschili che femminili: Merkel, Meloni, Schlein, Draghi, Letta.


Va incoraggiato l’uso dei nomi di cariche e professioni volti al femminile.

Questi nomi possono essere ricavati con l’applicazione delle normali regole di grammatica (ingegnere -> ingegnera, magistrato -> magistrata; e anche: il presidente -> la presidente, il giudice -> la giudice, ecc.). Tuttavia ancora oggi permangono al riguardo opinioni molto diverse, anzi contrapposte. Alcuni esprimono perplessità di fronte a forme femminili sentite come inusitate, giudicate una sorta di ipersindacalismo legato al genere («le differenze non si eliminano con trucchetti terminologici», afferma qualcuno). Oppure vengono respinte per un rifiuto ideologico (ampiamente diffuso in ambienti retrivi e reazionari) del “politicamente corretto”. Inoltre frequentemente affiorano valutazioni che potremmo definire di tipo estetico: i nuovi sostantivi femminili appaiono “brutti”, “non piacciono”, di conseguenza vengono considerati inaccettabili. Sul versante opposto si collocano coloro che rivendicano orgogliosamente l’uso dei nomi femminili come simbolo di un’insopprimibile esigenza paritaria, originata dai rivolgimenti sociali in atto. Per la prima volta nella storia, le donne raggiungono posizioni di responsabilità un tempo esclusivamente maschili. Se non suscitano perplessità parole come cuoca, infermiera, maestra, sarta, perché arretriamo di fronte a ingegnera e magistrata? Si trova ovvia e naturale la declinazione al femminile quando le donne praticano attività tradizionali o ritenute loro specifiche. Si resta incerti quando si tratta di novità. Senza motivi reali. Qualcuno definirebbe Sofia Goggia sciatore o Federica Pellegrini nuotatore? Analogamente, poco alla volta, ci abitueremo a magistrata, rettrice, architetta, ecc. La fine della discriminazione, l’annullamento del differente trattamento linguistico riservato ai generi possono diventare obiettivi della società intera. 


Vanno esclusi alcuni segni grafici eterodossi. Nella volontà di “opacizzare” il genere grammaticale, si ricorre ad artifici diversi, sostituendo in vari modi la terminazione tradizionale di nomi e aggettivi. Alcuni usano l’asterisco in fine di parola, in forme come “Car* collegh*” e “Car* tutt*”; oppure ricorrono allo schwa (una sorta di e rovesciato), come in “Carə studentə”; oppure ancora adottano come finale anche il numero 3, come in “Quello che è successo di riguarda tutt3, a prescindere dal colore politico di ognun3 di noi” (così leggo in un comunicato di un gruppo universitario studentesco). Le finalità paiono condivisibili, ma la lingua non ammette forzature. Resto perplesso quando leggo che in queste settimane, nel mondo anglosassone, ci si pone il problema di definire il genere (grammaticale) di Dio e ci si chiede se sia ancora il caso di intercedere presso il “Padre nostro” (ricorrendo al maschile). Ma come si potrebbe cambiare il “Padre nostro”, preghiera ed espressione indicata direttamente da Gesù? In Germania, un gruppo di giovani propose un paio d’anni fa di cambiare l’articolo maschile “Der” con il neutro “Das” quando si nomina la Divinità. Discutere del sesso di Dio richiama alla mente le medievali discussioni sul sesso degli angeli, inconcludenti e interminabili (lo dico con il massimo rispetto e senza nessuna competenza teologica). A volte anche opinioni per principio condivisibili possono generale effetti esagerati, o forse ridicoli. Luigi Labruna, professore emerito di Diritto Costituzionale all’Università di Napoli, a proposito di questi tentativi “innovatori”, opportunamente osserva che hanno suscitato «più che sconcerto, ilarità» 


Per concludere. È giusto e opportuno, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte relative al genere, evitando ogni forma di sessismo. Ma, per raggiungere l’obiettivo, non si può forzare la grammatica mettendola a servizio di un’ideologia. Trasferire brutalmente nella lingua posizioni ideologiche non è possibile, le estremizzazioni non sono opportune né offrono soluzioni effettive al problema della mancata inclusività, che è un fenomeno sociale da affrontare con strumenti idonei. La lingua aiuta, ma bisogna coinvolgere anche le menti e le coscienze.

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