L'Italia a luci rosse, un saggio ripercorre l'età dell'oro della cinematografia hard

Moana Pozzi
Moana Pozzi
di Marco Lombardi
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Domenica 11 Maggio 2014, 18:31 - Ultimo aggiornamento: 19:41
Tutti conoscono (almeno di nome) Cicciolina, Moana Pozzi e Rocco Siffredi. Ma prima che il cinema hard generasse le sue star, esattamente come il cinema di fiction, il porno si sviluppò in Italia con altre finalità. Anche di stampo socio-politico, oltreché economico. È questo quello che accadde fra il ’79 e l’84 (la cosiddetta "età dell'oro" dell'industria italiana a luci rosse), ed è questo il periodo che viene analizzato da“Luce rossa, la nascita e le prime fasi del cinema porno in Italia”, un saggio/dizionario scritto da Franco Grattarola e Andrea Napoli per Iacobelli.

L’hard nacque come un’ulteriore categoria in grado di rivitalizzare l’oramai moribondo cinema di genere, sulla scorta del successo riscosso in Francia, negli Usa e nel Nord Europa. Il “salto” rappresentativo è brutale, nel senso che si passa dai primi timidi nudi degli anni ‘30 dei film di Alessandro Blasetti e Flavio Calzavara a una produzione dedicata che riuscì a risollevare per alcuni anni l’industria cinematografica, tant’è che sono diversi i cineasti di genere che si convertono all’hard: fra questi Mario Siciliano, distributore e produttore del western e del peplum di fine anni ’60, e Angelo Pannacciò, sin dal dopoguerra sceneggiatore e produttore (anche – pare – cofinanziatore di “Ladri di biciclette”, il capolavoro di Vittorio De Sica).



LO SCONTRO

L’hard su pellicola ebbe contro i politici di ogni schieramento (dai missini ai comunisti), diversi gruppi in lotta fra loro (tra cui quelli cattolici e i movimenti femministi, che piazzarono diversi ordigni nei cinema a luci rosse della capitale), e addirittura un movimento terroristico di estrema destra detto “Ludwig” (che bruciò una sala milanese causando la morte di sei persone). Nonostante il cinema hard fosse un nemico diffusamente comune, s’affermò rapidamente anche come forma di ribellione politica nei confronti di una cultura in buona parte coercitiva e bigotta. Il fenomeno venne aiutato da altri fenomeni: l’editoria erotica, la televisione (dai primi nudi targati Rai alle trasmissioni hard delle neonate televisioni private) e il teatro di spogliarello. La commissione di censura fece una resistenza acerrima, tant’è che la libera circolazione si affermò grazie a un espediente: in commissione si presentavano dei normali film erotici spesso addizionati con incongrue sequenze (lunghissimi dialoghi, passeggiate sulla spiaggia, intermezzi comici), film che poi, una volta ottenuto il nullaosta, venivano rimontati con delle scene autenticamente hard. L’espediente fu smascherato per la prima volta nel 1982 dal Procuratore della Repubblica di Civitavecchia che ordinò il sequestro di oltre 180 pellicole, addebitando tuttavia ai produttori e ai distributori non il reato di oscenità, bensì quello di truffa.

La prima parte del libro, di stampo prettamente saggistico, mostra come le prime pellicole a luci rosse di produzione nazionale – estate 1979 – fossero ancora legate a dei vecchi generi cinematografici quali il conventuale (“Immagini di un convento” di Aristide Massaccesi), il thriller (“Play Mote!” di Mario Gariazzo e “Giallo a Venezia” di Mario Landi), il “women in prison” (”Femmine infernali” di Edoardo Mulargia) e la commedia sexy (“I porno amori di Eva” di Giorgio Mille). Già in questi primi film iniziò tuttavia a delinearsi un vero e proprio star system a luci rosse che annoverò Marina Hedman alias Marina Frajese (moglie di Paolo Frajese, il celebre giornalista Rai), la trans americana Ajita Wilson, la francese Françoise Perrot (ex fondatrice della rivista satirica “Il Male” ed ex fiamma del disegnatore Pino Zac) e una giovanissima Carmen Russo, ma anche degli attori fra cui il romano Manlio Cersosimo in arte Mark Shanon (ex impiegato dell’Ufficio Cambi della Banca d’Italia con trascorsi di generico nei film di Franco Franchi&Ciccio Ingrassia). Fra i registi cult si ricorda soprattutto Aristide Massaccesi alias Joe D’Amato, che in quegli anni diventò sinonimo dell’hard “made in Italy”.

La creazione di veri e propri divi (Cicciolina, Moana Pozzi e Rocco Siffredi) fu un inutile tentativo di far sopravvivere l’hard su pellicola, che aveva perso tutte le sue valenze “rivoluzionarie” fino a spegnersi per mano dei videoregistratori, che resero possibile una più “comoda” visione casalinga. Il saggio si chiude con un vero e proprio dizionario, la cui profondità filologica potrebbe far impallidire anche il Mereghetti.