Gianrico Carofiglio: «Così smaschero il potere occulto della metafora»

Gianrico Carofiglio: «Così smaschero il potere occulto della metafora»
di Valeria BLANCO
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Domenica 20 Settembre 2015, 21:15 - Ultimo aggiornamento: 21:17
«Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste. Le parole sono importanti». Nanni Moretti, quello di “Palombella rossa”, sarebbe stato d’accordo con l’ex magistrato Gianrico Carofiglio, che dopo il pamphlet “La manomissione delle parole”, torna a riflettere sull’uso manipolatorio del linguaggio in “Con parole precise. Breviario di scrittura civile”. Un saggio che, pur parlando d’altro, finisce con l’essere una lavoro politico. Ne viene fuori una denuncia dell’uso che, più o meno consapevolmente, la classe dirigente fa delle parole e delle metafore, spesso volutamente oscure, per perpetuare il proprio potere o ancora per evitare di dare conto del proprio operato.



Carofiglio, per la seconda volta si occupa dell’uso del linguaggio. Da dove nasce questa esigenza?

«Nasce dal disagio personale, persino da un pizzico di disgusto per il modo in cui è trattata la lingua nella comunicazione del potere, soprattutto nel diritto e nella burocrazia, e quindi per il modo in cui sono trattati i cittadini. Le lingue del potere sono deliberatamente oscure e mirano a escludere più che a comunicare. In maniera più o meno inconsapevole, trattano i cittadini da sudditi. L’altra ragione è di tipo civile: il tasso di democrazia di una società si misura dalla chiarezza della comunicazione tra governanti e governati. Più oscura è la comunicazione, meno buona è la salute della democrazia».



Le società in cui si parla male sono “malate”. Qual è, quindi, lo stato di salute della democrazia in Italia?

«Non buono se si osserva il dibattito pubblico. La poca chiarezza, la confusione deliberata, l’atteggiamento manipolatorio della politica, del diritto e della burocrazia sono sintomi preoccupanti».



A chi giova l’oscurità del linguaggio del potere?

«È una cortina fumogena che impedisce di vedere: una lingua incomprensibile non consente di chiedere ragione di quello che viene detto o fatto. Insomma, diventa un modo per perpetuare il potere senza rendere conto a nessuno».



La verità, sostiene nel suo saggio, è l’antidoto. Ma come si persegue?

«Quando parlo di verità intendo il contrario di manipolazione. È un concetto complesso, non un assoluto su cui tutti debbano convergere. Il dibattito condotto secondo verità è quello che usa onestamente le parole: poi è naturale e sano che, nella democrazia, ci siano più verità da sottoporre a confronto tra loro».



Chi sono i destinatari di questo libro?

«Qualsiasi lettore-cittadino che aspiri a non essere ridotto, nemmeno occultamente, a suddito. Per questo, pur essendo un libro tecnicamente rigoroso, è scritto in modo che possano leggerlo tutti. L’obiettivo è quello di risvegliare un senso di consapevolezza su cosa significa scrivere in un modo piuttosto che un altro».



Gli esempi di linguaggio oscuro sono la parte più godibile e persino ironica del suo saggio. Da ex magistrato, prende particolarmente di mira il cosiddetto “avvocatese”. Quali sono state le reazioni?

«Molti giuristi o burocrati non sono del tutto consapevoli del loro uso, spesso ridicolo, del linguaggio. La funzione del libro è proprio quella di mettere in moto un meccanismo di consapevolezza negli specialisti del diritto o nei detentori del potere che usano il linguaggio in modo sbagliato. Il libro è uscito da troppo poco tempo per fare un bilancio, ma spero che questo meccanismo virtuoso si metta in moto».



La sua analisi delle metafore manipolatorie della politica parte dalla “discesa in campo” di Berlusconi e arriva fino alla “rottamazione” di Renzi, passando per “Yes we can” di Obama. Che gliene pare della “ruspa” di Salvini?

«È una metafora muscolare e violenta, di una certa efficacia dal punto di vista tecnico, eticamente molto fragile e molto discutibile dal punto di vista dei valori. Non è una metafora trasformativa, cioè capace di attivare la parte migliore di noi e utilizzarla come strumento di trasformazione della società».



Negli Usa una legge - il Plain writing act - impone a chi amministra la cosa pubblica di usare un linguaggio comprensibile. Sarebbe il caso di mutuarla anche in Italia?

«Sì, ma più che punire chi usa un linguaggio oscuro mi piacerebbe che fossero incentivati i comportamenti virtuosi».



Si parte dal linguaggio e ci si ritrova a parlare di potere e democrazia. “Con parole precise” è, in definitiva, un libro politico?

«È un libro fortemente politico nell’accezione del termine che più mi piace: l’impegno di ognuno, con i suoi mezzi e secondo le sue specificità, di intervenire nel dibattito sulle cose da fare, le cose da cambiare e più in generale sulla qualità della democrazia».



Pur apprezzandola in versione di saggista, i suoi lettori aspettano un nuovo romanzo. Ne ha già in preparazione uno nuovo?

«Uscirà a breve un piccolo libro di racconti e per la fine dell’anno prossimo uscirà un nuovo romanzo, di cui è già pronto uno schema».