Cingolani: «La ricerca resta il tallone d'Achille del Paese»

Cingolani: «La ricerca resta il tallone d'Achille del Paese»
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Sabato 2 Marzo 2019, 11:09 - Ultimo aggiornamento: 12:20
di Maria Claudia MINERVA
«La ricerca resta il tallone d'Achille del Paese Italia, perché paga lo scotto di scarsi investimenti (l'1,2% del Pil contro il 2/3% che invece ricevono gli atenei stranieri)».
Parola di Roberto Cingolani, direttore al terzo mandato dell'IIT (Istituto Italiano Tecnologia) di Genova, tornato a Lecce in veste di super ospite della cerimonia di inaugurazione del 64esimo anno accademico dell'Unisalento, con una lectio magistralis su Ricerca è futuro, che ha incantato il pubblico. Scienziato iperproduttivo e di fama internazionale, in dodici anni di gestione dell'IIT Cingolani ha dimostrato di essere anche un manager di grande valore: sotto la sua gestione, l'Istituto si è affermato come uno degli enti di ricerca più vivaci nel panorama nazionale, l'unico con un modello di reclutamento all'americana, senza concorsi e con la più alta concentrazione di ricercatori stranieri. «Quando parliamo di ricerca universitaria penso a un consolidato sistema a doppio livello - ha detto il professore -: il primo, quello della ricerca pubblica sempre più povera di fondi, con la conseguenza che abbiamo pochi ricercatori: 70 mila nel pubblico mentre i Paesi concorrenti ne arruolano dai 90 mila ai 140 mila. Una battaglia impari, che ha a che fare pure con i finanziamenti e le infrastrutture non competitive. Poi c'è un secondo livello».
Quale?
«Quello delle regole sul reclutamento. Abbiamo meccanismi di reclutamento fuori dalle logiche internazionali,per cui se anche raddoppiassimo i fondi per la ricerca l'aumento non sortirebbe i benefici dovuti, perché oltre ad aumentare i finanziamenti bisognerebbe cambiare le regole, renderle più internazionali. Se veramente pensiamo di bilanciare i cervelli che escono con cervelli che entrano non possiamo usare una Gazzetta Ufficiale in italiano. Porto l'esempio dell'IIT, una struttura pubblica con 1.700 ricercatori, metà dei quali provengono da 60 Paesi del mondo, e con il 42% dei posti occupato da donne. Da noi i numeri si bilanciano sempre».
Crede che la fuga dei cervelli sia legata proprio alla mancanza di queste regole?
«I nostri cervelli sono in fuga perché li umiliamo, perché non gli offriamo delle condizioni che non sono neanche lontanamente paragonabili a quelle che sono le offerte fuori. Basta offrire delle condizioni normali come facciamo noi all'IIT e guarda caso il numero dei cervelli che esce è uguale al numero dei cervelli che entrano. È un problema di regole ma non so quanti le vogliano seguire. A giovani di 26-27 anni bisogna fare discorsi chiari, dirgli: Più sei bravo, più sarai premiato. E gli devi dare un corrispettivo anche economico al valore, e fargli capire che c'è una valutazione trasparente».
Quindi, è un bene che ci sia l'Anvur...
«Non una cento Anvur, dopo di che sono convinto che tutti i processi di valutazione possano essere migliorati, ma trovo scandaloso contestare la valutazione, l'arbitro nello sport non si contesta mai, anche se sbaglia. Se la mettiamo in termini calcistici diremmo: se la ricerca è sport l'arbitro non si contesta, questo è il fondamento di qualunque disciplina competitiva».
Professore, da anni svolge attività nei campi della robotica, della scienza computazionale, dei nanomateriali, e per ciascuno di questi campi fissa una serie di obiettivi: i robot companion, che possano affiancare l'uomo a casa e nel lavoro, il grafene, la nanomedicina, i nuovi strumenti di intelligenza artificiale per l'analisi ed elaborazione dei dati e molto altro ancora. Non c'è il rischio che l'automazione possa incidere negativamente sul mercato del lavoro?
«Questo è un aspetto su cui siamo molto attenti, molto concentrati. Le macchine autonome riducono la forza lavoro, soprattutto per i lavori di tipo routinario, quelli ripetitivi, sia di natura fisica che di natura cognitiva. Qui, però, il problema è molto complesso, nel senso che dalla prima rivoluzione industriale tutte le tecnologie hanno cambiato completamente i sistemi produttivi, hanno ucciso delle forme di lavoro e ne hanno creato altre nuove. Prima le trasformazioni erano di tipo intergenerazionale, quindi occupavano lunghi archi temporali ed il sistema sociale e politico avevano il tempo di metabolizzare l'innovazione per trarne dei benefici. Ora, invece, il tempo del cambiamento tecnologico si è ridotto ad una sola generazione e il cambiamento è diventato intragenerazionale. Questo significa che se sul lungo periodo il saldo sui posti di lavoro sarà positivo nell'immediato non lo è».
Bisogna poi fare i conti con la penuria di fondi che penalizza il Sud...
«I fondi sono pochi, si tratta di un problema che va arginato. Al Nord dicono che ci sono troppi fondi destinati al Sud e, invece, al Sud dicono il contrario. Bisogna sicuramente investire di più e con regole migliori».
La soluzione?
«Ci sono due modelli: basta fare tecnologia, ma così fermiamo anche il progresso, oppure, siccome il progresso è sempre più veloce e noi siamo rimasti lenti, allora bisogna pensare a una società che investa di più sulla scuola, sui lavoratori. Serve un patto pubblico-privato per cui aziende, università, scuole non pensino di fermare la formazione a 18 anni perché fino a 70 quello che hai imparato deve bastare. Non si può sottovalutare la trasformazione epocale che stiamo vivendo e occorre, quindi, stringere un patto tra pubblico e privato per aggiornare e prolungare la formazione».
In questo momento, cosa consiglierebbe ai giovani?
«Di studiare materie tecniche, c'è una grande carenza ricercatori in ambito tecnologico, questo è un bisogno del Paese. E, comunque, qualunque cosa studino, studiare in maniera approfondita, usare i libri, porsi sempre tante domande. Lo studio e la ricerca sono competizione».
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