Ricchezza del linguaggio, ricchezza del Paese

di Paolo CIOCIA
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Sabato 21 Novembre 2015, 01:03 - Ultimo aggiornamento: 4 Novembre, 10:35
La ricchezza culturale di un Paese si esprime molto spesso anche attraverso la varietà delle sfumature che il linguaggio, luogo di sedimentazione di lunghi percorsi storici, riesce a comunicare. Di contro, l'impoverimento progressivo della lingua, per la riduzione del numero delle parole usate e l’inaridirsi della loro duttilità, sono segni piuttosto evidenti di decadimento non solo culturale.



Ieri, da queste colonne Antonio Errico ha puntualmente dato conto del conformismo linguistico imperante e di quello che egli chiama “l’esagerata semplificazione e la regressione costante” di un linguaggio che appare come “accartocciato”, e si domanda se la scuola abbia la possibilità di impedire o almeno arginare questo processo di impoverimento.



Per troppo tempo, purtroppo, nella scuola e spesso anche nelle Università, si è lasciato che il linguaggio utilizzato dagli allievi negli elaborati, nelle prove orali come in qualsiasi altra occasione di scambio verbale, scivolasse nel declino dell'indifferenziato, del generico, del banale, per accontentarsi del fatto che poche parole semplici esprimessero, comunque, l' essenzialità del concetto acquisito. E dunque confortassero in ordine al raggiungimento degli obiettivi didattici prefissati.

Ho sempre ritenuto che questo fosse un errore e che non bisognasse arrendersi alla decadenza imperante.



Perché se è vero che la civiltà moderna richiede rapidità ed essenzialità di comunicazione, è altrettanto vero che la complessità delle sfumature di pensiero non si può esprimere attraverso una parola multiuso buona per tutti i casi e le stagioni. Ma ciò che appare più grave è che l'impoverimento del linguaggio porta in sé anche l'impoverimento del pensiero; perché la parola non serve solo per esprimere un pensiero, ma addirittura per articolarlo, ossia per concepirlo.



Se mi mancano le parole, non posso pensarle. Inutile aggiungere altro in ordine alle conseguenze che tanto può comportare sul piano formativo. La difficoltà ad articolare un ragionamento che abbia una sua complessità intrinseca, non nasce quasi mai da deficienze cognitive, ma dalla stessa difficoltà di pensare i concetti che le parole ignote sintetizzano. E così finiamo per disperdere, tutto insieme, patrimoni di cultura e di intelligenze.

La parola "giusta" racchiude e disvela mondi e contesti diversi. Talvolta antitetici a quelli che si vorrebbe racchiudere in un'unica espressione piatta ed amorfa.



Può riuscire uscire la scuola di oggi in questa opera di salvataggio e di rivoluzione? Con tutto l’apprezzamento per l'impegno e la dedizione di tanti ottimi docenti, mi sia consentito dubitarne.

Paolo Ciocia