La miseranda situazione in cui versa la socialdemocrazia europea, incapace d’iniziativa e del tutto schiacciata sulla difesa dell’esistente, è la prova di ciò. Ed è anche finita l’idea che i problemi politici siano tecnici. Destra e sinistra sono ancora gli assi portanti della politica, per nulla sostituibili da ‘vecchio’ e ‘nuovo’”. È innegabile che questa sia in primo luogo la fotografia del renzismo, considerato una caricatura “opportunistica” del realismo togliattiano poiché privo di una visione strategica, ma è anche il ritratto della socialdemocrazia europea. A cominciare dal “blairismo”, ispirato da A. Giddens teorico della “terza via”, senza dimenticare l’esperimento di “Grosse Koalition” promosso dalla Spd tedesca: entrambi hanno spalancato le porte dell’Europa alla transizione traumatica dallo Stato sociale al neoliberismo con gli effetti perversi derivanti dall’aumento ipertrofico delle diseguaglianze di classe e dalla conseguente polarizzazione tra un’élite sempre più ristretta di abbienti e la stragrande maggioranza della società condannata ad un impoverimento crescente.
Così pure, l’idea che la politica sia oggi da concepire come nient’altro che tecnica, rispetto a cui la tradizionale dicotomia destra/sinistra vada sostituita con quella di vecchio/nuovo, allude chiaramente ad una concezione tecnocratica, manageriale ed oligarchica del potere politico. Se si accettano queste premesse, che vorrei almeno per sommi capi mostrare essere parziali ed insufficienti per un’analisi adeguata della fase storica attuale in cui è nato il renzismo, si comprende anche in che senso Galli affermi che la sinistra è una “parte” della società, ma non un’“ideologia”, dal momento che, a suo avviso, ideologia è il “pensiero unico neoliberista” dominante, che occulta le “contraddizioni reali che gli ineriscono”.
Certo, la sinistra non è un’“ideologia” nell’accezione di “falsa coscienza”, ma lo è nel suo significato più proprio di concezione del mondo e di coscienza più o meno riflessa del posto che un soggetto, individuale o collettivo, occupa all’interno dell’ordine sociale. Tutta la storia del movimento operaio dalle sue origini alla fondazione con Marx della Prima Internazionale, sino alla rivoluzione d’ottobre e alle rivoluzioni anticoloniali del Novecento, sta lì a dimostrarlo.
E che la sinistra nella sua storia abbia avuto a che fare anche con il totalitarismo, per ragioni che qui sarebbe troppo lungo illustrare, non può essere sottaciuto. D’altronde, quando Galli individua la “contraddizione centrale” dell’epoca nella contrapposizione tra “ristretti strati elevati” capaci di afferrare le “dinamiche del capitale mondiale” e di governarle attraverso “le leve economiche o tecno-burocratiche” da un lato e gli “strati subalterni perennemente agiti e incapaci di protagonismo” dall’altro, è al marxismo come scienza della società e come ideologia di una “parte” di essa, la quale aspira a diventare egemone, che egli si richiama.
Ora, ciò che vorrei contestare è esattamente quest’assunto sociologico di Galli, secondo cui la “contraddizione centrale” della nostra società – ma non sappiamo se e fino a che punto ciò vale anche per le altre società nella catena diseguale della globalizzazione – sarebbe quella tra i pochi che detengono il sapere delle “dinamiche del capitale mondiale” e i molti che ne sono esclusi e ne sono “agiti” “grazie al ruolo mistificatorio dei media, veicoli del pensiero unico”. Tutti gli altri “cleavages” o, come si diceva un tempo, tutte le altre “contraddizioni secondarie” ruotano attorno a questa “contraddizione centrale” celandone lo statuto strutturale. Galli mi perdonerà, ma questa è una tesi molto ingenua, che è diventata un topos di una certa pubblicistica corrente.
Proprio come la rappresentazione della società italiana come un insieme di caste da smantellare è, egli osserva giustamente, mera “propaganda”, così l’immagine della società italiana spaccata dalla linea di demarcazione tra i pochi in possesso del sapere-potere e i molti “inconsapevoli”, perché anestetizzati da “anomia”, “apatia”, “disagio”, disinformazione, ecc. è quanto meno schematica e semplicistica. Quale sarebbe allora in questa prospettiva il “compito” della sinistra? Quello, risponde Galli, di “agire a livello critico e intellettuale per rompere questa inconsapevolezza, per criticarne in modo non moralistico le derive, per spostare l’attenzione dai livelli – pur importanti – della corruzione e della illegalità alle contraddizioni strutturali del presente stato di cose. Insomma, è dare forma politica a contraddizioni crescenti che fino a ora non trovano espressione concettuale e politica”.
Non credo che, stando a questi enunciati generali, possa esserci un nuovo “inizio” capace di condurre la sinistra oltre l’orizzonte del renzismo. Tanto più che sul piano dell’analisi economica – o, meglio, dell’analisi economico/politica – il documento è del tutto carente, perché, al di là delle legittime critiche alle politiche dell’UE, al cappio iugulatorio dell’austerità o al ruolo dominante della Germania, manca qualsiasi abbozzo di una visione critica e strategica della fase storica presente. Giusto per intenderci, rinvio alle analisi di W. Streck e T. Piketty, i quali hanno evidenziato che con l’affermazione egemonica di un capitalismo finanziario e speculativo nell’economia globale stiamo vivendo il passaggio dagli strumenti di politica economica pubblica degli Stati nazionali ad una politica economica rivolta a depotenziare i meccanismi di protezione sociale e ad instaurare un sistema sovranazionale immune dai “capricci” della politica ed assoggettato al verdetto dei mercati finanziari. Che questo processo immanente alla globalizzazione comporti una trasformazione radicale della forma finora conosciuta degli Stati nazionali, è un dato la cui evidenza balza agli occhi. Gli Stati nazionali subiscono uno svuotamento tendenziale della loro sovranità, nel senso che alla centralità del parlamento e delle sedi di democrazia partecipata si va sostituendo un complesso di apparati tecno-burocratici “immuni” da ogni controllo dal basso.
La critica dell’ordoliberismo tedesco – cioè dell’esportazione del modello del marco tedesco agli altri Stati satellite europei -, su cui a ragion veduta Galli insiste, si inscrive in questa cornice più ampia della rivoluzione neoliberista. Come pure, vi si inscrivono le derive leaderistiche e le pulsioni populistiche che attraversano e scuotono le società europee e non-europee. La risposta a questo trend strutturale di spoliticizzazione di massa sta nell’attivazione di una democrazia civica, che, anche utilizzando le nuove tecnologie della rivoluzione digitale, renda i soggetti e le associazioni protagonisti consapevoli della loro convivenza riempiendo di senso, con la loro partecipazione, le istituzioni verticali della rappresentanza.
E qui, infine, incontriamo la lacuna più vistosa del documento di Galli: in nessun passaggio viene rilevato il fenomeno più importante nella storia del capitalismo, ossia il fatto che oggi per la prima volta siamo di fronte ad un capitalismo senza crescita o, comunque, ad un capitalismo che non conoscerà mai più i tassi di sviluppo registrati finora. Questo dato strutturale pone enormi problemi di convivenza tra i popoli, tra le nazioni e tra le classi sociali, a cui qui non possiamo nemmeno accennare, ma che non si possono sottacere, se si vuole inaugurare un nuovo “inizio” nella cultura politica della sinistra (e non solo della sinistra).
Francesco Fistetti