di Paolo Balduzzi
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Venerdì 19 Marzo 2021, 00:10

Un asse Roma-Parigi per riscrivere il “Patto di stabilità e crescita”: questa la suggestione che emerge dall’intervista a Bruno Le Maire, ministro dell’Economia francese, pubblicata ieri dal Messaggero. Una suggestione tutt’altro che astratta: momento più opportuno per mettere mano alle regole del Patto probabilmente non si potrebbe trovare. E la nuova leadership italiana in Europa ci candida come protagonista naturale di questa delicata operazione. 

Ma che cosa non ha funzionato delle vecchie regole? Come cambiarle? E, prima di tutto, di che cosa davvero si tratta? Il Patto di stabilità e crescita è un complesso di cosiddette “regole fiscali”, approvate dai paesi membri dell’Unione. La finalità di queste regole è di garantire la stabilità monetaria dell’Unione stessa e di promuoverne la crescita economica. Per fare ciò, si è sempre ritenuto corretto tenere sotto controllo le finanze pubbliche dei singoli Paesi, attraverso, appunto, le regole contenute nel Patto. 

Non si tratta di norme immutabili, anzi: il Patto è in vigore dal 1997, data di creazione dell’Unione monetaria, e dalla primavera 2020 è temporaneamente sospeso a causa delle emergenze economiche provocate dalla pandemia. In questi 25 anni di vita, interventi di modifica non sono certo mancati. 

Una delle prime riforme avvenne a seguito dello sforamento delle regole da parte proprio di Francia e Germania, nel 2003. L’ultima variazione rilevante è invece avvenuta nel periodo 2011/2012, a seguito della crisi economica e di quella dei debiti sovrani. Per qualcuno, a dire il vero, proprio le regole stesse del Patto hanno esacerbato i problemi dei Paesi membri. 

Le polemiche, anche per motivi opposti, non sono mai mancate: per qualcuno le regole erano troppo lasche, per altri troppo stringenti; per molti, è stato troppo lento il procedimento di aggiornamento; per tutti, sono da sempre troppo complicate, difficili da comprendere, applicare ma, soprattutto, far rispettare. 

Tornando al 2012, bisogna ammettere che l’Europa sia stata salvata più dalla Banca centrale europea che dalla Commissione. Ed è quindi un’ottima notizia il fatto che chi allora guidava proprio la Bce sia oggi a capo del governo italiano. Di riformare ulteriormente il Patto, del resto, si parlava ben prima che scoppiasse la pandemia. Insomma, queste regole erano già vecchie anche quando ancora non lo sembravano così tanto come ora. Risale infatti al 2019 una proposta di riforma da parte dello European Fiscal Board, l’organo indipendente creato per dare pareri su questioni fiscali. 

Senza pandemia, questa proposta sarebbe stata al centro del dibattito tra le cancellerie europee già nel 2020. Il tema, in realtà, è diventato centrale lo stesso, in modo diverso e suo malgrado, a causa dell’emergenza sanitaria che ne ha sancita la temporanea sospensione. Ora, parlando di riforma del Patto, almeno due punti sembrano piuttosto ovvi e non richiedono chissà quali discussioni. Il primo è che non c’è nessuna fretta di eliminare questa sospensione, che infatti sarà probabilmente confermata fino a tutto il 2022. Il secondo è che c’è quindi tutto il tempo per scrivere un nuovo Patto di stabilità e crescita, che potrà entrare in vigore proprio quando la clausola di sospensione sarà disattivata. 

Sui contenuti, è molto condivisibile la direzione proposta da Le Maire: maggiori investimenti e sostegno allo sviluppo. È proprio così: con una battuta, potremmo dire che le regole e l’attenzione della Commissione europea hanno finora enfatizzato solo la parola “stabilità”, mentre sarebbe finalmente ora di pensare anche al secondo termine e di concentrarsi sulla “crescita”. 

Per questo motivo, bisogna avere il coraggio di ammettere che i deficit non devono più essere la preoccupazione principale degli Stati europei.

Per due motivi. Il primo è che la famosa regola del 3% (rapporto deficit/pil), poi comunque già aggiornata con la definizione di un Obiettivo di medio termine personalizzato per ogni Paese, non è in grado di distinguere tra spese buone e spese cattive. Anzi, disincentiva gli investimenti, le spese buone che però sono politicamente poco sensibili, a favore invece di quelle correnti, spesso elettorali. Niente di più sbagliato. 

Il secondo riguarda proprio il ruolo degli investimenti: mi avrebbe reso molto orgoglioso il mio governo se un anno fa si fosse presentato a Bruxelles con un bilancio in deficit del 5% ma causato da un piano shock di investimenti per la crescita. Quale commissario europeo o quale cancelleria avrebbe avuto il coraggio di opporsi a questa ambizioso programma?
Certo, eliminare la soglia del 3% e introdurre la cosiddetta golden rule per gli investimenti richiede una compensazione in termini di maggiore attenzione alla riduzione del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, questo sì vero fardello per i Paesi membri (a partire dal nostro). Non molto diverse sono le proposte dello European fiscal board: passare dalla regola del deficit a quella della spesa nominale; introdurre una programmazione pluriennale con possibilità di recuperi sull’obiettivo nel corso del periodo considerato; differenziare gli obiettivi per livello di debito. 

Bisognerebbe aggiungere un controllo preventivo sugli investimenti proposti, nel caso passasse la proposta della golden rule. Un meccanismo del tutto analogo a quello previsto ad oggi per accedere ai fondi del Recovery facility che finanzierà i Piani nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). È del tutto evidente che avendo i piani di sostegno europei (appunto, Recovery facility e Next generation Eu) un orizzonte di medio-lungo periodo, le nuove regole del Patto non potranno fare a meno di integrarsi con queste. 

Il momento per riformare il Patto è arrivato, si diceva. E non tanto per l’emergenza sanitaria ed economica in sé. Ma perché proprio l’emergenza ha dimostrato che l’Europa è in grado di avere un progetto comune basato su solidarietà e condivisione. Allo stesso modo, tuttavia, l’emergenza ha anche mostrato che l’Europa fa ancora fatica a competere con Stati Uniti e Cina. 

La buona notizia è che il futuro, dell’Italia e dell’Europa, è nelle nostre mani. Se saremo in grado di presentare un Piano di ripresa credibile e ambizioso, e se finalmente ridurremo il rapporto tra debito e prodotto interno lordo, il decennio appena iniziato potrà vederci recuperare la necessaria reputazione e diventare di nuovo credibili e protagonisti. A partire proprio dalla riscrittura delle regole di convivenza.
 

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