Tonino Caputo: in viaggio nel mondo per amore dell'arte

Tonino Caputo: in viaggio nel mondo per amore dell'arte
di Claudia PRESICCE
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Giovedì 17 Settembre 2015, 22:12
La Lecce degli anni Cinquanta era troppo piccola per chi, come lui, aveva una incontenibile voglia di conoscere il mondo. Ma il viaggio di Tonino

Caputo , artista leccese, classe 1933, cominciò proprio tra le strade barocche del centro storico battute dalla forte tramontana, con altri ragazzi come lui, un po’ scapestrati e destinati all’arte. I ponti che gettò per andarsene da questo Sud lo portarono a Roma (dove ancora vive), in Europa e poi verso il Nuovo Continente. Poi sono anche diventati, molti anni dopo, l’elemento chiave di una fervida stagione artistica.



Non solo dipinti, ma anche incisioni , acqueforti sul rame, sullo zinco, opere che saranno protagoniste della mostra che prende il via giovedì 17 settembre a Lecce presso la Galleria Arca in via Palmieri, inaugurazione alle 19.

Maestro, cominciamo dalla Lecce da cui partì, nel secondo dopoguerra. Culturalmente com’era? «Piccola, con due grandi poeti, Vittorio Pagano e Vittorio Bodini e una giovane Rina Durante con il gusto dei versi. Io, con Ugo Tapparini, Antonio Massari e Edoardo De Candia eravamo ragazzi amanti dell’arte e furono i libri che erano in casa di Angela Pagano, mamma del mio amico Ugo e sorella del poeta Vittorio, ad aprirci un mondo di letture: scrittori americani come Faulkner, Steinbeck e altri, i cui testi non erano facili da trovare. Mio padre era interessato alla storia, ma a casa mia non c’erano molti libri; Antonio era figlio del pittore Michele Massari; Edoardo era figlio di un secondino e a casa di Ugo si respirava una cultura internazionale, grazie a Vittorio Pagano. Una volta, proprio mentre cominciavo, Pagano mi “sorprese” a dipingere per strada, a due passi da piazza S.Oronzo. Mi conosceva come amico del nipote Ugo. Si fermò e disse “pure tu ti sei messo a dipingere, mi piacciono!”, prese due quadri e se li portò via. Così da allora cominciai a crederci».



Nei primi anni Cinquanta decise di lasciare Lecce..

«Sì, con la scusa di studiare architettura a Roma. Sapevo che non mi sarei laureato, volevo dipingere. Feci infatti solo i primi esami. Nel frattempo Tapparini, Massari e De Candia mi raggiungevano spesso e cercavamo di capire che cavolo era questa “cultura”. Roma era davanti a noi, ma io a 24 anni avevo già una figlia (che purtroppo non ho più) e cercavo una stabilità. Per campare facevo il giornalista. Conobbi allora alcuni personaggi - Mafai, Attardi, Vespignani - insomma il gruppo della mia generazione che si aggirava in piazza del Popolo. Poi feci amicizia con Piero Manzoni e andai a trovarlo a Milano: allora facevo l’informale ed ero nel gruppo degli “arrabbiati”, volevamo distruggere tutto».



Conobbe anche Carmelo Bene.

«In realtà lo avevo già conosciuto a Lecce. Al contrario di quello che si crede, non ho mai fatto scenografie per lui, ma solo locandine e pitture di scena. Il film “Capriccio”, che fu girato a casa mia, fu l’unica scenografia, involontaria: lì i tre quadri che si distruggevano a colpi di arance, di De Chirico, Guttuso e Morandi, li avevo fatti io mettendo insieme gli oggetti. Era uno sfregio alla pittura figurativa dell’epoca».



Sono poi arrivati gli scorci newyorkesi, diventati centrali nel suo lavoro.

«Molto dopo. Avevo fatto una mostra a Parigi nel ’65 con disegni molto raffinati ed elaborati ed ebbi ottime recensioni. Poi andai a Monaco di Baviera, viaggiai tanto, studiai il metafisico. Nell’81 mi trasferì a New York dove sono stato in maniera discontinua per 30 anni. Riscoprì lì l’architettura rinascimentale e i paesaggi asettici dietro alle figure di Piero della Francesca. In America non avevano il gusto dell’antico, demolivano e ricostruivano sempre, abbondano i paesaggi industriali. Così arrivò il “nuovo metafisico”, come Fortunato Bellonzi definì la mia pittura. Nell’87 andai ad abitare al Testaccio e fui conquistato dall’archeologia industriale. Bellonzi mi disse che quelli erano i “miei veri quadri”. Un pittore non si rende conto da solo di queste cose».



Ha interiorizzato poi i ponti americani: le sono nel cuore più dei paesaggi della sua terra?

«I ponti sono arrivati solo dieci anni fa. E solo io li ho dipinti di rosso, cioè con l’antiruggine, perché quello stadio mi affascina molto. Dipingo quello che mi attira di più, poi ci sono i miei quadri cosiddetti “bruciati” erano architetture leccesi, ma è stata una fase precedente. New York è un luogo che ti stupisce sempre, dipingerla non è facile. Una città verticale, mentre Roma o Venezia sono città orizzontali e più statiche. Le finestre dei miei quadri sono sempre chiuse, ma dentro sono abitate, ci guardano».



Arriviamo alla mostra di Lecce. Perché le incisioni ?

«Avendo fatto già due mostre di quadri a Lecce, a distanza di due anni e mezzo una dall’altra, al Museo e al Castello, ho voluto portare le incisioni

che ho fatto per quarant’anni e sono poco note. Le mie cartelle con “i Martiri di Otranto” che riguardano la nostra storia è strano ma si trovano a Roma, a New York, a Tel Aviv, a Sydney e in altri posti, ma non ce n’è una né a Lecce e né a Otranto. Queste sono cose strane della vita, per non dire di peggio».



Ma Lecce oggi com’è rispetto a quando l’ha lasciata lei?

«Non è come la ricordo io, ma è sempre molto elegante. Io ho lasciato un paese di 30mila abitanti che finiva al piazzale delle Poste, oltre il quale c’erano le famose “scise” dove si coltivavano le fave o si giocava a pallone. Non ci sono più gli incroci battuti dalla tramontana: troppi palazzi. La città è molto cresciuta anche dal punto di vista culturale, nella musica e nella letteratura».
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