La campionessa Martina Caironi: «Ragazzi, imparate a trattare i disabili come persone normali»

L'intervento di Marco Tardelli
Lo sport deve essere uno strumento di miglioramento e cambiamento nella quotidianità, non un fine. Ribadisce questo principio, Luca Pancalli, presidente del Comitato...

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Lo sport deve essere uno strumento di miglioramento e cambiamento nella quotidianità, non un fine. Ribadisce questo principio, Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano Paralimpico, nella prima vera giornata di Festival di Cultura Paralimpica, quarta edizione, dopo la cerimonia inaugurale, nella Sala Verde (Sala a Tracciare), all'Arsenale Militare Marittimo di Taranto.

Il focus

L'occasione era il confronto “Ripartire con lo Sport”, apripista di diverse testimonianze e, nel frattempo, centinaia di studenti si alternavano negli appuntamenti organizzati al Villaggio Paralimpico. Le testimonianze avevano in comune la protesi, emblema di rinascita e disuguaglianza se si pensa ad altri paesi. Martina Caironi è il collante di questi contributi, perché ha collaborato con Ied ed Alon Siman Tov - coinvolto in progetti di moda inclusiva e sostenibile - affinché si progettassero protesi paralimpiche colorate ed espressive, e cerca di essere di supporto attraverso la sua storia.

Nel 2008, l'atleta paralimpica ha iniziato ad usare una protesi, dopo un incidente nel 2007: «Sono rimasta "io", grazie alle protesi. Non lo dico perché siamo qui con il centro protesi di Inail. Lo dico perché è importantissimo poter tornare alla vita quotidiana con uno strumento ed io l'ho potuto fare subito, perché in Italia siamo fortunati. Le prime protesi mi sono state date gratuitamente sulla fiducia, molto importante perché sono costose, ho iniziato la mia carriera, a correre, a vincere. La protesi sportiva mi ha dato la possibilità di mostrarmi con più facilità al mondo e mostrare la mia disabilità con orgoglio. All'inizio, avevo una protesi più simile ad un gamba naturale, piano piano l'ho sempre più portata all'essenziale, ora è nera. Questa è elettronica».

Nel 2016/17, Martina Caironi è stata al Centro Protesi in Kenya, mostrato nel documentario “Niente sta scritto”, in collaborazione con la Fondazione Fontana onlus, di Marco Zuin, sulle esperienze sua e di Piergiorgio Cattani, giornalista con una grave forma di distrofia, scomparso: «Lì, la situazione è indietro rispetto a noi e le risorse non sono paragonabili. Andare lì con questo tipo di tecnologia, mi faceva sentire in imbarazzo. Mi piacerebbe di più fare cooperazione internazionale. Ora, ho un ruolo d'atleta».

Agli studenti, ha consigliato: «Il vostro compito è portare gli insegnamenti di oggi nella quotidianità, con le persone disabili, trattandole normalmente e non facendovi frenare, informandovi, cercando di scoprire un mondo grandissimo».

Nei contesti più difficili, a volte ignorati, opera Emergency e la presidente Rossella Miccio ha raccontato la sua esperienza dopo un filmato di ricordo su Gino Strada ed il lavoro iniziato nel '94 a favore di 13 milioni di persone, gratuitamente: «Le mine anti uomo hanno l'obiettivo di creare un disabile. Questa cosa non ci stava bene ed abbiamo provato a superarla. Nel Kurdistan iracheno, abbiamo un centro protesi. Non è all'avanguardia, però con una tecnologia meno avanzata si riesce a fare tutto. Tanti colleghi sono ex pazienti. Abbiamo creato corsi di formazione professionale. Oggi sono circa 400 le cooperative».

In vent'anni, è capitato di interagire con le forze armate o con la Marina Militare: «I militari di tutte le nazionalità li incontriamo nei paesi in cui siamo, dove ci sono missioni internazionali - risponde - teniamo distinte le attività. Il nostro mandato è puramente umanitario e non ci sono tantissimi punti di contatto. In Italia, c'è una nostra nave di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, ora ormeggiata a Brindisi. In quest'attività, interagiamo tantissimo con istituzioni italiane, Guardia Costiera e Marina Militare, impegnata nel soccorso. Il rapporto (all'estero) è quasi esclusivamente con autorità e popolazioni locali. Laddove ci sono contingenti internazionali, capita a volte di interagire. Con noi, non c'è collaborazione strumentale. I medici e gli ospedali militari tendono a prendersi cura di loro feriti. Noi facciamo cosa serve alla popolazione civile. A Kabul, il contingente italiano veniva a donare il sangue in ospedale. Sono mondi diversi. Ragionano su logiche diverse e presupposi diversi».

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Quotidiano Di Puglia